// di Francesco Cataldo Verrina //
Gerry Mulligan – «Presenting The Gerry Mulligan Sextet», 1956
Fra il 1955 ed il 1956, Gerry Mulligan fu a capo di un interessante sestetto con cui registrò tre album, di cui “Presenting The Gerry Mulligan Sextet” è certamente il più riuscito. Il set vide il decano dei baritonisti affiancato in prima linea dal trombettista John Eardley, dal trombonista Bob Brookmeyer e Zoot Sims al sax tenore, accompagnati da Peck Morrison al basso e da Dave Bailey alla batteria.
Come in molti dischi di Mulligan una sezione fiati completa viene preferita al pianoforte, ma la ricchezza degli arrangiamenti e la varietà timbrica degli strumenti, non fanno sentire la mancanza di un fraseggio pianistico, talvolta dispersivo, soprattutto i brani up-tempo risultano più snelli e diretti. Registrato il 21 settembre ed il 31 ottobre del 1956 l’album mantiene intatta la propria freschezza, collocandosi a metà strada tra un oscillante swing da big band ed un corposo hard-bop, sintassi jazz preferita da tutti gli esecutori di rango in quello scorcio di anni cinquanta.
La struttura dei brani, lo scambio e l’alternanza fra i quattro strumenti a fiato, ma soprattutto l’incedere ritmico, a volte energico e senza pause, dimostra come Mulligan volesse marcare una distanza dal moderato genere tipicamente West-Coast legato alla breve stagione del cool, la conclusiva “Bernie’s Tune”, che porta anche la firma del baritonista, ne è la dimostrazione, cosi come un versione a tratti soul-funk di “The Lady Is a Tramp”, dove la retroguardia ritmica accelera costantemente mettendo fuoco e carburante nello splendido tenore di Zoot Sims, il quale, come pochi, sapeva adornare e reinventare la melodia con improvvisazioni creative ed inattese; Mulligan, dal canto suo, si propone con riffs veloci e taglienti uscendo dal naturale registro del baritono. “Broadway” offre ancora al sax di Zoot Sims e alla tromba di John Eardley un palcoscenico perfetto, mentre trombone e baritono sembrano inizialmente fungere da semplici accompagnatori, fino a quando nell’intermedio Mulligan non conquista la scena sostenuto a distanza da un avvolgente intreccio di fiati quasi all’unisono, fino alla nota conclusiva affidata al tenore di Sims.
Tra i nove brani contenuti nel l’album c’è anche un piccolo omaggio agli amanti del giradischi “Nights On The Turntable”, scritta da Mulligan, un’intrigante ballata mid-range bagnata in oro massiccio nelle acque del soul ed imperniata su un gioco melodico accattivante ed a presa rapida. Da segnalare anche “Apple Core” firmata dal band-leader e l’iniziale “Mud Bug”. Nella sterminata discografia del baritonista per antonomasia, il periodo del sestetto rimane uno più godibili, forse il più spensierato e “Presenting The Gerry Mulligan Sextet” sicuramente è uno di quei dischi da aggiungere alla vostra ricca collezione jazz.


Gerry Mulligan Quartet – «Reunion with Chet Baker», 1957
l Gerry Mulligan Quartet del 1952/53 fu uno dei gruppi jazz più amati del decennio rendendo celebri sia il leader, sempre collaborativo e disponibile a misurarsi con un’altra sponda, che l’irrequieto, tormentato ed incostante Chet Baker. Per quest’ultimo la nuova collaborazione rappresentò un piacevole ritorno a casa, dopo la fuga. Del resto, Gerry Mulligan è stato forse l’artista più collaborativo e disponibile della storia del jazz, forse uno dei pochi in grado di deporre il proprio super-Io in favore di una collegialità d’intenti, ma anche uno dei pochi a masticare con disinvoltura tutte le sintassi e gli stili del jazz ed a passare indenne almeno fra quattro generazioni. Mulligan e Baker, in seguito al periodo aureo, ebbero pochissime occasioni di riunirsi dopo il 1953; e questo particolare album del 1957 costituisce un’eccezione. Sebbene non possieda la magia dell’esperienza precedente, la musica è piuttosto intrigante e l’interazione tra i due ottoni è ancora speciale. Con l’accompagnamento esperto del bassista Henry Grimes e del batterista Dave Bailey, queste interpretazioni possono soddisfare sia i seguaci di Mulligan che di Baker, nonché i cultori più esperti.
L’ultima traccia della seconda facciata dell’album è un tributo ideale a Charlie Parker. Mulligan e soci perseguono in questa esegesi, uno studio dei grandi del passato recente, con dedizione tenace, quasi ingenua. La musica sembra farsi molte domande, ma le risposte non arrivano, se non nel senso dell’appagamento artistico dell’esecutore e del trait d’union che egli stabilisce con l’ascoltatore o con il pubblico. La mente di Mulligan, nella misura in cui asseconda questo scopo, è sotto molti aspetti unica. La sua scelta appare impareggiabile e la ripresa di «Ornithology» diventa emblematica. Non teme il confronto con Bird, al contrario lo studia, lo rivitalizza e lo riporta in auge come un prezioso reperto custodito e non come una reliquia apparentemente sacra ed intoccabile. Il suo baritono va sulle alte con grande padronanza, quasi a non voler far rimpiangere il penetrante alto di Parker, sostenuto da una scorrevole sezione ritmica: basso e batteria boppano a velocità sostenuta senza tregua, ma è la tromba di Chet Baker che ricama le note più sottili e con un passo superiore alle sue riserve di fiato.
Non c’è musica più suggestiva di quella proveniente da molteplici coordinate spazio-temporali, così come la sua riconversione in qualcosa di nuovo creata dall’interpretazione del quartetto di Mulligan. E ciò accade anche per «My Heart Belongs To Daddy», uno standard di Cole Porter, o per «When Your Lover Has Gone» di Swan, che sembrano ricalibrarsi alla perfezione sullo stile West-Coast, dove il call-and-response fra tromba e sax baritono trova la levità del fraseggio ed il rispetto dell’alternanza tra sodali. Diventa davvero difficile in tale contesto, se non impossibile, dire se le due «voci» siano riuscite ad attraversare quel punto in cui l’umanità si libera delle miserie quotidiane per elevarsi, scrollandosi di dosso la gravosità della materia. Questo non è impossibile, quando il secondo «fiato» appartiene alla tromba di Chet Baker. I due, insieme, illustrano con purezza quasi matematica un sistema in cui il tutto è davvero più grande della somma delle sue parti.
La dimostrazione viene da «Reunion», l’unica traccia dell’album a firma Mulligan. Gerry fa un bel gioco modale, procedendo per salti; il suo sax sembra mutare pelle ad ogni cambio, mentre la tromba di Chet lo insegue sul suo stesso terreno; ad un certo punto il baritono sembra sparire in un amalgama con la sezione ritmica, sfiorando un registro di note dai bassi abissali, mentre la tromba si riappropria della scena e fra i due inizia un «battibecco» da manuale fino alla conclusione del brano. Mulligan non era mai «mainstream», potremmo dire prevedibile e scontato, una posizione interessante condivisa da un altro musicista a lui paragonabile: il formidabile Thelonious Monk. La musica di Mulligan, come quella del Monaco, anche se dinamicamente bilanciata, rimane singolarmente polimorfa e preannuncia sempre un mutamento ed un’emozione proveniente da direzioni non ancora esplorate: una sorta di perenne divenire. Basta cogliere l’essenza di «The Surrey With The Fringe On Top» o di «Trav’lin’ Light».
«Reunion with Chet Baker» consente un nuovo inizio a questo diadico, questo gioco di coppia, una sorta di numero binario che lega Mulligan a Baker e che comprende anche la batteria di Dave Bailey o il basso di Henry Grimes, più percussivo e un po’ meno surrettizio del solito, e che non vanno considerati semplicemente additivi esterni, ma come due ingredienti coerenti all’organico. Non c’è uno stesso retroterra culturale o background sonoro in tutti i singoli elementi del quartetto: non lo si può sostenere esplicitamente o implicitamente in modo inequivocabile. L’amalgama in ogni caso è riuscito e l’album promosso a pieni voti. Tra gli evidenti bagliori del cristallino sound di Mulligan e i colori sotterranei e adombrati delle note di Baker, il piacere diventa sublime.


Gerry Mulligan & Ben Webster – «Gerry Mulligan Meets Ben Webster», 1959
Volendo ragionare per paradossi, diciamo che il successo di un musicista, a volte, potrebbe essere direttamente proporzionale al peso dello strumento che si trascina dietro: Gerry Mulligan e Pepper Adams, durante l’età d’oro del jazz «moderno», sono stati i templari del sax baritono per antonomasia, entrambi padroni di uno strumento ingombrante e dai toni intensi. Adams viene principalmente ricordato per le sue eccellenti escursioni hard bop con Donald Byrd, mentre Mulligan è stato un innovatore come capostipite dello stile West Coast, prosperando e suonando con ogni tipo di musicista jazz. In effetti, «Gerry Mulligan Meets Ben Webster» fu solo uno dei tanti album «incontri» che Mulligan diede alle stampe in quel periodo. Il suo modo versatile e sorprendentemente flessuoso di suonare il baritono sarebbe diventato più inventivo e avventuroso se fosse stato associato a personaggi come Thelonious Monk, John Coltrane, Charles Mingus, ma in questo caso, con Ben Webster trova una dimensione a metà strada tra passato e presente che, abilmente, gli consente di proiettare verso il futuro la scelta di un repertorio che apparentemente guardava ai fasti di un tempo.
Nel 1959, quando Gerry Mulligan incontrò Ben Webster, questi era una leggenda, appartenente alla trinità dei vecchi tenori «swing swing» che comprendeva Coleman Hawkins e Lester Young; dal canto suo, Mulligan non sembrava mai deludere le aspettative, a prescindere dalle collaborazioni e dall’impostazione sonora del progetto. Il disco, infatti, non delude: ha tutti i tratti distintivi che ti aspetteresti da un incontro tra due fenomenali talenti. Assoli inventivi e melodie memorabili, tutte guidate dalla sezione ritmica estremamente capace. Il brano più famoso dell’album è «Chelsea Bridge» di Billy Strayhorn e tutto ciò incomprensibilmente nel 1959, quando il bop e il modal jazz erano gli stili in voga, «Chelsea Bridge» costituiva un ritorno alle ballate soulful, ricche di atmosfera, fortemente emozionanti, ma tipiche del decennio precedente.
Webster aveva già suonato come solista in questo brano durante il periodo trascorso alla corte di Duke Ellington, così i suoi due assoli nella nuova versione dell’album diventano un tributo alla memoria e una dimostrazione della capacità di colui che era stato un innovatore ante-litteram del sax tenore e di quanto fosse ancora influente ed attuale il suo modo di suonare. Mulligan rispetta il suo turno e si staglia agilmente tra i due assoli di Webster, confermando, qualora ce ne fosse stato bisogno, quanto fosse leggero e arioso il sax baritono tra le sue mani. A seguire «The Cat Walk», una composizione di Mulligan, dove il call-and-response tra i due sassofoni sembra richiamare il passo molle e felpato di un gatto pigro e sornione; perfino l’incedere ammiccante della sezione ritmica sembra arridere al gioco di prestigio dei due co-leaders. «Sunday» è un altro standard che riecheggia, per via del suo procedere swingante, le big band, ma calato in una più moderna atmosfera bop, soprattutto il cambio di passo tra il baritono ed il tenore sembra voglia sottolineare questa sua duplice identità. La seconda facciata si apre con «Who’s Got Rhythm», scritta sempre dal prolifico Gerry, probabilmente il pezzo più bello dell’album, con la sezione ritmica in uno stato di grazia. Gli inserti dei due sassofoni sono contenuti e distanziati, con una tecnica tipica del cool jazz impiegata quando coesistevano due strumenti a fiato.
C’è spazio per tutti i musicisti e l’alternanza regala ampio respiro al pezzo che dura più di 7 minuti. «Tell Me When», sempre di Gerry Mulligan, è una ballata, molto cool, lenta e sospirosa, dove Webster fa un capolavoro: il suo sassofono suona come una tromba in sordina, con pennellate di miele mille millefiori spalmate con dolcezza ed un tocco di malinconia. L’album si chiude con «Go Home» scritto a quattro mani dai due protagonisti, e qui Mulligan lascia l’onore e l’onere delle armi al vecchio leone, concedendogli di sbizzarrirsi con una struttura blues, più vicina alle sue corde e che omaggia il passato, ma la metodologia impiegata dalla band lo fa sembrare un pezzo attualissimo, proiettandolo nel futuro: la tecnica è quella tipica del jazz modale. La sezione ritmica si distende ed offre un tappeto ideale all’alternanza dei due sassofonisti, senza fughe impossibili, ma solo per controllati salti armonici. L’intermezzo pianistico acquieta gli animi, mentre i due sassofoni rientrano lentamente per il rush finale. «Gerry Mulligan Meets Ben Webster» prende spunto dalle big band di Ellington e Count Basie come ispirazione, ma allo stesso tempo riesce ad essere completamente moderno e non del tutto fuori luogo nel ribollente e mutante mondo jazz del 1959.
Mulligan, il suo sodale e i gregari furono all’altezza delle lusinghiere lodi di Dave Brubeck: «Ascoltando Gerry Mulligan, ti senti come se stessi ascoltando il passato, il presente e il futuro del jazz, tutto in un pezzo, l’esecuzione viene servita con tale rigore e rispetto della continuità che non capisci mai il cambiamento di stile o la dimensione spazio-temporale».
Questo album è il risultato di una collaborazione speciale tra due grandi interpreti della metà del secolo scorso, occasionale, forse casuale, fortuita; probabilmente Gerry Mulligan e Ben Webster non avevano neppure immaginato di poter entrare in contatto e connettersi: entrambi sassofonisti, Mulligan al baritono e Webster al tenore, i due si compensarono e si completarono a vicenda e senza sforzo. Un plauso va anche agli altri protagonisti di queste sessioni: Jimmy Rowles al piano, Leroy Vinnegar al contrabbasso e Mel Lewis alla batteria. Mulligan da vero fan dell’opera di Webster, era sempre aperto a collaborare con gli artisti che ammirava; i due condividevano anche la stessa passione per Duke Ellington, che li avvicinava ancora i più. Il quintetto avrebbe potuto risultare un ensemble innegabilmente piccolo, soprattutto per giustificare la presenza di due sassofonisti, ma funzionò alla perfezione, consentendo ad ogni strumento di avere uno spazio espressivo ed agli ascoltatori di fruirne con estrema naturalezza. Mulligan e Webster sembrano parlare attraverso i loro strumenti, proprio con la cadenza di una conversazione che fluisce e rifluisce. I loro sassofoni a volte «parlano», altre si ascoltano l’un l’altro. «Gerry Mulligan Meets Ben Webster» è un disco in cui è facile penetrare appieno, a prescindere dal proprio gusto e dal livello di conoscenza del jazz.
Gerry Mulligan & Paul Desmond – «Blues In Time», 1957
Dopo la collaborazione con il Dave Brubeck Quartet, Gerry Mulligan aveva stretto una certa amicizia con Paul Desmond ed entrambi avevano accarezzato l’idea di realizzare una sessione insieme, ma ci furono alcune beghe legali accampate dal produttore Norman Granz: soprattutto non era, inizialmente, chiaro quale etichetta discografica avrebbe sovvenzionato il progetto e pubblicato l’album. Risolte le questioni legali, i due sassofonisti riuscirono ad organizzare il set con il supporto di Joe Bengjamin al basso e Dave Bailey alla batteria e distillare un album dall’aria piacevole e giocosa, in cui si stimolano e si completano a vicenda. Basato uno standard, il classico «Body And Soul» e sei originali, il disco evidenzia la perfetta interazione tra il baritono, corpulento ma agile di Mulligan e il contralto di Desmond dal suono quasi magico e fiabesco, che rende la combinazione fluida, scorrevole, quasi sbarazzina, capace d’incantare anche l’ascoltatore più refrattario al jazz; dal canto loro, il batterista Dave Bailey e il bassista Joe Benjamin fanno un ottimo lavoro di accompagnamento, cauto e misurato dalle retrovie, lasciando che i co-leader siano costantemente sotto i riflettori.
Trattandosi del tipico quartetto senza pianoforte alla Mulligan, i due front-men sono liberi di vagare e spaziare a loro piacimento, tessendo trame improvvisate e piacevoli ricami melodici. I due sodali procedono con passo leggiadro e spedito alla stregua di due vecchi compagni d’avventura, i quali si divertono come bambini, dopo essersi ritrovati insieme. Il tono spensierato della title-track, «Blues in Time», a firma Desmond né è una riprova; così come «Battle Hymn Of The Republican» diventa un’ottima performance in puro stile bop; al contrario «Wintersong» emette un forte sapore blues, dove contralto si caratterizza con un suono sommesso e sofferente, mentre il baritono si mantiene in disparte, lanciando di tanto in tanto qualche ruggito. Fra i tre componimenti scritti da Mulligan, «Line for Lyons» diventa quasi la quintessenza inebriante di una melodia a presa rapida, esaltata dalla ricchezza armonica dei due sassofoni che mescolano toni, stili ed umori con grande abilità. «Standstill» e «Fallout» hanno il fascino ed il merito di tutte le composizioni Mulligan, ossia la facilità di arrivare all’ascoltatore: la prima è una melodia bop oscillante e melodica, la seconda conferma la compatibilità armonica fra i due sassofonisti. Registrato tra New York e Los Angeles nell’agosto del 1957, «Blues In Time» è un riuscito esempio di mainstream a tutto tondo, senza sperimentazioni o fughe verso l’impossibile, facile per i neofiti, stuzzicante per i consumatori di jazz sine die.
Paul Desmond & Gerry Mulligan – «Two Of A Mind», 1962
L’album «Two Of A Mind» fu registrato il 26 giugno, il 3 luglio e il 13 agosto del 1962, presso lo Studio A dell’RCA di New York e segnò un ritorno di fiamma tra Desmond e Mulligan, i quali, cinque anni dopo «Blues In Time», si ritrovarono nuovamente fianco a fianco. I due s’intendevano a meraviglia; intanto avevano entrambi uno spiccato senso dell’umorismo; erano auto-ironici e con la battuta facile; soprattutto si compensavano. Desmond era dotato di una marcata liricità, mentre Mulligan risultava più estroverso nelle sue progressioni sonore. Quando queste sessioni furono registrate nell’estate del 1962, Paul Desmond era stato membro del Dave Brubeck Quartet per dieci anni, componendo per il suo titolare «Take Five», il singolo jazz più venduto di tutti i tempi. Perfino i critici che avevano costantemente rigettato la musica di quel quartetto, specialmente lo stile pianistico, a volte goffo, di Brubeck, l’incorporazione di melodie folk o di sigle televisive, non negarono mai a Desmond taluni riconoscimenti.
Per molti osservatori, Paul Desmond era un talento le cui ali erano state tarpate da Brubeck, il quale aveva perfino preteso e stabilito per contratto che l’altoista non potesse apparire insieme ad altri pianisti nelle sue sessioni da solista; ciò costrinse Desmond a collaborare con altre tipologie di musicisti, da qui la fruttuosa collaborazione con il chitarrista Jim Hall. Gerry Mulligan era stato un personaggio di spicco negli ambienti jazz d’avanguardia sin dalla fine degli anni Quaranta, avendo giocato un ruolo chiave nelle sessioni di «Birth of the Cool» insieme a Miles Davis, sia come esecutore che come compositore (all’epoca non accreditato). Nel suo quartetto con Chet Baker, Chico Hamilton e Bob Whitlock, Mulligan aveva consolidato la sua fama di principale innovatore della West-Coast, dove il suo baritono sobrio si amalgamava perfettamente alla tromba elegiaca e struggente di Baker.
Il quartetto di Ornette Coleman viene spesso indicato come quello che aveva fatto cadere in disgrazia il pianoforte, al fine di consentire agli strumenti a linea singola una maggiore libertà espressiva, ma il gruppo pianoless di Mulligan e Baker aveva precorso i tempi sin dagli anni Cinquanta. «Two of a Mind» è un album gioioso ed immediato con una selezione di brani scanzonati, in maggioranza giocati su un tempo medio-veloce, a cui Desmond e Mulligan contribuiscono con un singolo componimento, mentre il resto sono standard come «All The Things You Are» e «The Way You Look Tonight». «Two of a Mind», la title-track, firmata Paul Desmond, è immediatamente riconoscibile quale farina del sacco dell’autore di «Take Five»: ha una movenza felina e seducente; il tema risulta molto soggettivo con il classico andamento arcuato, quasi che il sassofonista l’avesse scritto apposta per sé; il contrasto tra la levità del contralto di Desmond ed il pastoso suono di Mulligan diventa l’elemento caratterizzante del disco.
L’unico brano lento è una splendida versione di «Stardust», dove l’assolo di Mulligan in chiaroscuro diffonde un senso di ombrosa, ma rassicurante drammaticità; Desmond, dal canto suo, si inserisce con brevi variazioni, sostenendo le progressioni del baritonista. Tutto l’album è segnato da un vero e proprio senso del dialogo, del ritmo, dei modi e dei tempi, quasi una sorta di copione teatrale. I due conoscono a menadito il materiale trattato e sono troppo scaltri per invadere l’uno il territorio dell’altro. Al contrario, si compensano. Molte delle successive registrazioni di Desmond come band-leader risulteranno spesso asettiche, scontate e di maniera, mentre il sodalizio con Mulligan e la perfetta fusione tra contralto e baritono, rimarranno uno dei momenti più esaltanti della sua carriera.
Gerry Mulligan & Chet Baker – «Carnagie Hall Concert», 1975
Siamo nel 1974 e il produttore Don Friedman cercava da mesi di riunire le glorie del cool per alcune sedute revival. La maggior parte degli artisti si era negata: in quel periodo storico i musicisti preferivano pensare alle creazioni del momento piuttosto che non voltarsi a guardare al passato. Non è così per Chet e Gerry, che non suonavano assieme da dieci anni, e per i quali il richiamo di certi momenti magici, quelli dei giorni in cui avevano dato vita ad alcune pietre miliari del jazz, era senza dubbio forte. Il 24 novembre 1974, i due sono già sul palco della Carnegie Hall e Mulligan dice: «Cosa facciamo per primo?», suggerisce Baker, «è per scaldarci», aggiunge. Chet è uno che si era sempre preoccupato per la riuscita delle sue performance, e poco prima aveva confidato a Mulligan di non sentirsi a proprio agio. «Lo immaginavo», aveva risposto Gerry. E Chet: «È la tensione di essere alla Carnegie Hall, preferirei essere allo Stryker’s Pub».
Il concerto venne registrato e fu una performance piena di sorprese. Non di certo con la poesia e la freschezza del magico esordio del Gerry Mulligan Quartet, ovvio, ma si avverte la maturità dei due artisti, che ancora possono toccare con quelle note l’animo di chi ascolta, con qualcosa di diverso, un sound caldo e nostalgico, che contiene vent’anni della loro arte, del loro jazz e di vita vissuta più che intensamente. Nove brani (pubblicati su due album) in cui Mulligan svetta (anche perché Chet suona solo in tre brani), soprattutto sfoderando una novità,una sorpresa tenuta in serbo, come da sua ammissione, per stupire: è la sua composizione «Song for Strayhorn», splendida, lirica, dedicata al grande compositore scomparso nel 1967.
A un certo punto si sente la voce di Chet che nell’ intervallo tra un brano e l’altro, dice «don’t change your hair for me, not if you care for me“, e Jerry «stay little funny Valentine, stay». Chet attacca il brano, arricchendolo di pathos e nostalgia, in una versione che non si scorda e che provoca l’ovazione del pubblico della Carnegie. «It’s Sandy At The Beach», «There Will Never Be Another You», il lungo «K-4 Pacific» (11 minuti), «Margarine», il classico «Bernie’s Tune», e «Song For An Unfinished Woman», altra riuscita composizione di Mulligan, sono gli altri pezzi eseguiti.
La sezione ritmica, composta dal pianista Bob James, dal batterista Harvey Mason, dal vibrafonista Dave Samuels e dal bassista Ron Carter, è onesta e professionale, mentre ottimo risulta John Scofield, chitarrista dal tocco romantico e rilassato. Alla fine del concerto, non inclusi nella registrazione, parteciperanno al set anche Stan Getz e Buddy Rich. È l’ultima volta che Chet e Gerry suoneranno assieme.

