Charlie Parker With String – «April in Paris», 1950

// di Francesco Cataldo Verrina //

Appena dimostrato al mondo di essere un genio del sax moderno, Charlie Parker divenne onnivoro, soprattutto negli anni ’50 si misurò su vari fronti. In «April in Paris» scopriamo il suo lato più romantico e sdrucciolevole. In questo album non c’è parvenza dell’irruenza tipica del bop, ma un romantico sassofono, che parla con voce umana, e quasi come un «crooner» fa il gattone su un morbido tappeto di archi, anticipando di almeno dieci anni nel gusto e nella forma, ma nella non nella sostanza, certe atmosfere cool distese e ariose che molto piaceranno ad una successiva generazione di jazzisti bianchi. Dimenticato, momentaneamente, il frenetico bop, segnato da tempi molto veloci e da elaborazioni armoniche innovative, dove tutto quello che poteva risultare lineare, ballabile o gradito al pubblico adulto dell’epoca veniva sistematicamente bandito. Il bebop si era sostanziato proprio in quegli elementi di rottura e di insofferenza sociale rispetto alla tradizione, diventando una sorta di avamposto culturale, decantato perfino dai poeti della cosiddetta Beat Generation, nonché citato in alcune delle loro opere più famose, come la poesia «Urlo» di Allen Ginsberg.

Siamo nel 1950 e, con Charlie Parker With Te String, «April in Paris», non è difficile immaginare una sala da ballo affollata da coppie innamorate che si stringono, mentre Bird spalma sulle loro orecchie tonnellate di miele mille fiori. L’aspro odor del bop dei tempi difficili è lontano anni luce. L’epoca dei ragazzi «terribili», qui, sembrerebbe superata o momentaneamente accantonata. La lungimiranza di Charlie Parker, assoluto innovatore, fu proprio quella di saper fare tutto ciò che gli altri potevano e sapevano fare, quando pochi riuscirono in quello che lui era il primo della classe, aggiungendovi qualche piccolo elemento inedito e personale.

L’album si srotola soavemente attraverso una lunga carrellata di classici e standard, ripresi anche in altri momenti da vari jazzisti ed adattati al proprio gusto personale. Al contrario Bird si amalgama all’orchestra che lo sostiene con un fare da musicista classico e compassato, finendo per essere un ricercato e sottile esecutore ed aprendo la via ad una futura generazione di intrattenitori da balera di «papettiana» memoria. Ovviamente, absit iniuria verbis.

Condivisero questa esperienza con Parker dei luminari come Max Holinader, violinista e concertmaster della NEC Symphony, Frank Mirier, primo violoncellista della NBC Symphony, Hronislaw Gimpd, primo violino, Frank Brief, violista e direttore d’orchestra da camera; Myor Rosen, arpista precedentemente con la sinfonica di Minneapolis, Mitch Miller, valutato tra i migliori oboisti del mondo, in questa occasione si cimentò con oboe e corno inglese. La sezione ritmica fu affidata Stan Freeman, al piano; Buddy Rich, alla batteria e Ray Brown, al basso. La facciata A fu arrangiata e diretta da Jimmy Carroll. Joe Lipman arrangiò e diresse il lato B con Samul Rand, Harry Meinikoff, Zelly Srmirnoff, Howard A. Kay e Sam Caplan, ai violini, Edwin C. Brown, oboe, Joseph Singer, corno francese, Maurice Brown, violoncello, Isadore Zir, viola; Verlye Mills, arpa e con la stessa sezione ritmica, tranne Bernie Leighton al pianoforte.

Chi conosce la lunga discografia di Parker é al corrente che egli sapeva incantare, sia quando il suo sax volava impetuoso tra raffiche di accordi e melodie infarcite da fraseggi improvvisati, sia quando distillava languide perle dal sangue blues, dal languido e flessuoso incedere. In questo disco non c’è nevrastenia improvvisativa, ogni impeto è sapientemente trattenuto, ma il sax che svolazza sui violini, le viole ed i violoncelli, accompagnato da qualche inserto pianistico, è sempre quello di Bird. La magnificenza è tanta e la sensazione che trasferisce, descrive idealmente una Parigi elegante, distante, languida e melanconica, in una aprile piovoso, mentre torme di amanti si struggono di passione ed i loro pensieri diventano fantasie sfuggenti. C’è tutto mondo apparentemente decadente, come un vecchio film in bianco e nero o in un technicolor con i telefoni bianchi, il quale sembra rifugiarsi fra le trame sonore di un orchestra che li guida su fiabeschi sentieri lastricati di sogni e desideri inconfessabili: il sax fa tutto il resto. Come scrisse Leonard Feather, uno dei massimi studiosi di Parker, a proposito della pubblicazione di questo album: «Vero genio del nuovo movimento jazz, ha portato l’arte dell’improvvisazione ad un elevato picco di maturità. Qui, in una vena melodica, con accompagnamento archi: un altro aspetto della stessa genialità

Bird era troppo individualista e sicuro di sé per farsi condizionare da agenti esterni nelle sue scelte; va da sé, che in tale circostanza abbia voluto solo divertirsi e misurasi con una dimensione differente da quella abituale. Il suo sassofono senza il demoniaco trillo dell’improvvisazione qui appare alquanto dimesso, ma solo se si osserva il tutto da un’angolazione strettamente bop. Dal punto di vista musicale, l’impatto con questa musica così suonata, come da spartito e regolamentata da norme e canoni ben precisi, con tanto di direzione, deve aver avuto su di lui un effetto rigenerante. Charlie Parker, perfetto ed inarrivabile nel classico combo bebop ristretto, ma senza regole, era stato anche uomo d’orchestra, ovviamente non di questo tipo, ma dove vigeva una ripartizione dei ruoli ben precisa. Se compromesso ci fu, per lui cambiò solo il contesto e la modalità in cui potersi esprimere, perfino in tale circostanza la sua posizione di «primo attore» sulla scena restò intatta. Il protagonista fu lui. Il suo sax diede nuovo lustro ed anche voce umana ad un selezionato numero di brani, alcuni conosciuti sotto forma di canzone «cantata»: undici classici come «April in Paris», «Summertime», queste due prime tracce sono da brivido, per non parlare di altre, quali «I Didn’t Kwow What Time It Was», «Just Friends», «They Can’t Take That Away From Me», «You Come Along» o «Easy To Love».

Finanche in questo ruolo Bird fu un anticipatore, basti pensare a quanti artisti, perfino nel rock, nei decenni a seguire, vollero provare l’ebrezza di calare la propria musica in una dimensione sinfonica, abbandonando gli assoli liberi e le chitarre distorte. In tal caso, posiamo parlare di una contaminazione atta a contenere gli eccessi, più che ad esacerbarli. Siamo nel 1950, gli steccati erano più rigidi, e chi ci guadagnò fu senz’altro la musica. «April in Paris» di Charlie Parker With String anticipa di decenni, in maniera inconsapevole, il concetto di musica ambient, ossia quel tipo di musica adatta a un sottofondo rilassante e piacevole in qualunque circostanza, in cui il tono e l’atmosfera generata possono assumere maggiore rilevanza rispetto ai valori di ritmo e di struttura melodico-armonica, così come veniva concepiti in seno al bebop. L’album fu ripubblicato dalla Verve nel 1957, a due anni della morte di Bird.