Brubeck/Mulligan/Desmond – «We’re All Together Again For The First Time», 1972
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il jazz nei primi anni 70 stava prendendo traiettorie ardite, la stagione del «free» aveva spostato l’asse dei pensiero dominate verso mondi inesplorati, mentre la fusion cominciava a conquistare la scena, attraverso la contaminazione ed il melting-pot sonoro: era possibile fare qualsiasi cosa dissonante e chiamarla jazz. Perfino la megalomania dei concerti pop-rock influenzava il jazz nel momento della messa in scena. Si cercava più il contatto fisico con il pubblico e non tanto l’affinità elettiva, il comune sentire, il confronto ideologico e l’elevazione spirituale. Il jazz, perdendo rigore ed austerità, si svendeva sul piano inclinato dello spettacolino sciocco con tanto di accompagnamento da parte del pubblico. Questo live, «We’re All Together Again For The First Time», risente del clima di quegli anni e va benissimo per i cultori del jazz, ma va studiato ed analizzato bene per comprendere bene certi fenomeni. Piace a certi rockettari, che vedono nella dilatazione eccessiva dei pezzi da vivo, rispetto agli originali, una sorta di allineamento al mood di quel tempo. Fermo restando che nel jazz esistevano da sempre pezzi originali che occupavano l’intera facciata di un LP, soprattutto in ambito «free».
La prima domanda sorge spontanea: chi è il vero titolare di questa impresa: Dave Brubeck (piano), Gerry Mulligan (sax baritono), Paul Desmond (sax alto)? Gli altri due, il bassista Jack Six ed il batterista Alan Dawson erano solo due gregari di lusso. «We’re All Together Again For The First Time», è un buon live, tecnicamente impeccabile, uno di quei prodotti facili e ruffiani che danno l’idea che il jazz non sia poi un affare così complicato e per pochi eletti. Brubeck un valido musicista, che ha fatto avvicinare al jazz anche quelli che cercano nel jazz qualcosa di più masticabile e digeribile, e questo è un bene, ma non ha mai saputo cogliere a mio avviso quella che era l’anima «nera» del jazz, a differenza di altri bianchi come Chet Beker o lo stesso Gerry Mulligan.
Registrato nel 1972, durante un tour europeo tra Berlino, Parigi e Rotterdam, il disco in questione, pur professionalmente e tecnicamente impeccabile, è a mio avviso è ridondante, in alcuni tratti da l’idea che ci sia competizione tra i vari protagonisti. Vi do un motivazione quantitativa, c’è uno di troppo: Brubeck e Desmond insieme erano perfetti, così come lo erano (lo furono) Mulligan e Desmond in altre circostanze, tutte e tre insieme eccedono. E’ come se volessero dimostrare, anche inconsciamente, di essere uno più determinante dell’altro nell’economia del progetto. Nel disco c’è una freddezza analitica, molto calcolata e tesa al virtuosismo dimostrativo, con assoli lunghi e ripetitivi, e per contro c’è poca sintesi necessaria all’economia di gruppo. Nella versione di «Take Five», alquanto ampollosa, proprio all’inizio: partenza di piano straordinario, subito il sax baritono di Mulligan, quando entra il sax alto di Desmond sembra poca cosa, ricorda certe orchestrine di liscio (che non è una deminutio capitis), dove il capobanda indossa sempre una giacca blu fosforescente o a quadri come quella di Desmond.

«Take Five» fu scritta proprio da Paul Desmond, ottimo contraltista, che con questo brano c’ha fatto una fortuna: la sua fortuna e quella di Dave Brubeck. I due si prendevano alla perfezione ed inventarono a mia avviso questa versione molto smooth del cool jazz. La sonorità del quartetto di Brubeck era caratterizzata dal contrasto tra la politonalità del lavoro pianistico di Brubeck e la voce ariosa del sax di Desmond. Brubeck ne era talmente consapevole che a Desmond veniva proibito per contratto l’utilizzo del pianoforte quando si esibiva come leader in altre formazioni. «Take Five» , che permise a Desmond di campare di rendita e a Brubeck di appropriarsene indebitamente, è un bel pezzo orecchiabile. Nella versione presente nell’album e che apre la seconda facciata, «Take Five» è stata dilatata in maniera spropositata, arriva a durare 16 minuti, ma dopo i primi tre diventa già noiosa: non era consuetudine dei musicisti «cool» della West Coast espandere eccessivamente i brani, liberandosi in assoli lunghi ed improbabili.
Ovviamente il punto di eccellenza sono gli inserti e le fughe sempre contenute di Gerry Mulligan, l’unico in grado di tenere il cordone ombelicale legato al jazz. Sembrerebbe ruotare tutto intorno a «Take Five», invece, il meglio dell’album è sulla prima facciata: si parte con «Truth», firmata Brubeck, che pur dilatata in più di dieci minuti, si srotola meglio lungo tutto il percorso: è un funkettone jazzato che crea un atmosfera da film modello «Blaxploitation», la distribuzione delle partiture, ma soprattutto la ritmica nella sua impostazione corre molto sul filo della Fusion. Siamo nel 1972 ed i condizionamenti sono notevoli; a seguire «Unfinished Woman», pezzo scritto da Gerry Mulligan, in cui la band ritrova la via smarrita, ricordandosi che esiste ancora una parvenza di cool jazz. Il lavoro dei sassofoni diventa più ponderato e meno impulsivo. Anche se il pezzo è in crescendo, i cavalli di razza non entrano in competizione e Desmond si esprime al meglio.
A suggellare la facciata arriva «Koto Song» in una splendida versione lunare, peccato che il pianista suoni musica classica e non jazz, per contro il sax nell’inserto iniziale fa un piccolo miracolo e suona «cool» come un tromba in sordina. Sul lato B, dopo, l’interminabile «Take Five, un preambolo, sonoro scritto da Brubeck e chiamato «Rotterdam Blues», introduce la classica «Sweet Georgia Brown», tanto per porre fine, alle solite voci, secondo cui Brubeck non conosceva il blues, peccato l’accompagnamento col battito di mani da parte del pubblico, tipo concerto di Capodanno.
Dave Brubeck (musicista, estremamente furbo ed opportunista), come dicevo, ha avuto il merito di far passare per jazz ciò che non lo era, ed a far appezzare il jazz anche a chi ancora oggi cerca di trovarci una sequenza logica ed una struttura a canzone con un ritornello da fischiettare sotto la doccia, non a caso, in epoche recenti, «Take Five» è stato scelto come commento sonoro di un noto spot pubblicitario. Brubeck fu un antesignano dello smooth jazz per intenderci. E’ chiaro che il jazz può essere tutto ed il contrario di tutto, spesso il contrario di se stesso, anche Miles Davis o altre genialità eccentriche l’hanno dimostrato più volte, ma sempre in fase di sperimentazione e di contaminazione. Che poi sia evoluzione o involuzione, ai posteri l’ardua sentenza.