// di Marcello Marinelli //
Sono un po’ “jovanottiano” in musica, e attingendo da uno dei suoi testi più famosi “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano”. Ora toglierei da quella moltitudine San Patrignano, dopo che ho visto l’omonima serie TV, esperienza a dir poco discutibile. Al contrario di Jovanotti “io non penso positivo”, nel senso che ho delle grandi riserve sulla bontà dell’umanità e sul presunto progresso della civiltà, anzi penso negativo, però questo non mi impedisce di vivere positivamente la mia quotidianità, e citando una frase storica “Professo l’ottimismo della volontà, nonostante il pessimismo della ragione”.
Ritornando in tema strettamente musicale, dopo per aver per tantissimi anni dedicato i miei interessi musicali esclusivamente al Jazz, mi sono aperto a tutti i suoi derivati e alle altre ramificazioni della musica afroamericana, Soul, R’n’B, funk, reggae, rap, etc, etc., quindi sono anche amante degli ibridi e delle contaminazioni di vario genere e mi piacciono sonorità diverse. Non si discute il fatto che nel jazz si è toccata la più alta forma artistica di tutta la storia musicale afroamericana e quindi quando si ascolta qualcosa di diverso, dai canoni tradizionali, non necessariamente si devono fare sempre paragoni in senso di valore assoluto, quindi quando si ascolta un disco di Soul jazz come questo, la mente deve essere sgombra da pregiudizi che ne possono inficiarne la fruizione.

Siamo nel 1992 e questo allora giovane chitarrista londinese, morto il 13 gennaio del 2014 a soli 51 anni, mi colpì con la cover, uno delle più belle secondo me, del celeberrimo “So what”. Allora non si parlava di soul jazz, ma di “acid jazz” per definire un certo tipo di music in voga in quel periodo, io preferisco parlare di Soul jazz, molto più pertinente. Comunque il limite delle etichette, della definizione di una musica, c’è sempre stato e sempre ci sarà. Oggi più che mai, se usciamo dal perimetro della tradizione e ci avventuriamo in terreni diversi, a volte non sappiamo esattamente cosa stiamo ascoltando e in questi equivoci di classificazione e di “vera” interpretazione ci si accapiglia e s discute animatamente. A volte il recinto è troppo stretto e a volte troppo largo. Ronny Jordan , che ho visto anche dal vivo in un set entusiasmante, influenzato da George Benson mi ha colpito per il suo fraseggio ed elegante, che se non si può definire jazz in senso stretto, lo definirei “jazzy”, se questo può valere qualcosa .
Su youTube c’è una performance del 2010 , peccato l’audio non perfetto, di George Benson che interviene ad un concerto di Ronny Jordan , e interpretano insieme “Staight no Chaser”, con George Benson che si produce in uno scat vertiginoso. Nel disco compaiono anche un rapper e delle voci femminili in un paio di brani, ma è un disco suonato non cantato e l’atmosfera generale mi intriga moltissimo. All’epoca la musica di questo tipo rispondeva anche ad esigenze di tipo “danzereccio” e allora non c’era niente di meglio che ballare a tempo di soul jazz con musica di livello, si univa l’utile al dilettevole. Se a qualcuno questo disco farà “cagare” prendetelo come un lassativo, però se decidete di ascoltarlo contestualizzatelo, e allora se proprio non volete sentire tutto il disco perché lo trovate “leggerino” ascoltatevi solo “So what”. A me gli ibridi mi alimentano positivamente e considerato che le auto ibride fanno bene all’ambiente non produco scorie inquinanti, viva gli ibridi. In ogni caso non voglio fondare una nuova religione ibrida, mi accontento di esternare un punto di vista musicale and So what? So what nothing!