“Una domanda sorge spontanea: che pianista sarebbe stato Keith Jarrett senza la nascita del blues?”
// di Marcello Marinelli //
Mi prendo una pausa dall’inizio del secolo scorso, dalla mia particolare retrospettiva sui luoghi dove iniziò il ‘tutto’, la musica del del delta del Missisippi, tra il fiume omonimo e il fiume Yazoo, sua maestà il Blues. Ma prima di fare un balzo avanti fino al 1983, tempo del disco di cui sto per parlare, una premessa. Sto ritornando sui miei passi perché la storia individuale e collettiva è un mix tra slanci in avanti e passi a ritroso. Ora sto rileggendo la storia gloriosa del popolo afroamericano e della sua espressione in musica agli albori della sua comparsa. Personaggi leggendari quali Charley Patton, Skip James, Robert Johnson, ‘Blind’ Lemon Jefferson, Son House e tanti altri che nel loro peregrinare ondivago con chitarra a tracolla, nelle campagne delle ex piantagioni, nello stato più povero degli Stati Uniti, o negli stati confinanti, il Tennesse, l’Alabama o la Luisiana hanno gettato le basi della musica come la conosciamo. Dal blues a macchia d’olio tutto si è irradiato, il blues come substrato di tutta la musica a venire. Per ricollegarmi al 1983, a New York, at Power Station, un trio d’eccezione, il Keith Jarrett trio, un produttore lungimirante Manfred Eicher, la sua casa discografica l’ECM.
Ora una domanda sorge spontanea: che pianista sarebbe stato Keith Jarrett senza la nascita del blues? Sarebbe stato un ottimo pianista classico o forse con il suo genio avrebbe inventato uno stile nuovo che non possiamo neanche immaginare ma visto che la mia è una domanda oziosa e visto che il blues per fortuna dell’umanità intera è un fatto conclamato, e che dal blues è nato il jazz, allora possiamo affermare senza ombra di smentita, che Keith Jarrett è un grande pianista jazz, uno dei più grandi. Il jazz senza il blues è come un falegname senza legno. Il disco in questione del pianista è ‘Changes’. Come detto in precedenza era l’anno 1983 e in quella seduta vennero partoriti, oltre che questo disco anche altri due dischi ‘Standars vol. 1 e 2’. Erano i primi dischi in trio, con questo trio di Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette. In precedenza aveva già inciso in trio con Paul Motian e Charlie Haden e anche con gli stessi musicisti di questo disco aveva già inciso in un disco a nome Gary Peacock ‘Tales of another’ del 1977. Ora il disco del 1977 è un buon disco, ma li si passeggiava a terra, qui si vola in aria, infatti il brano che copre tutta la prima facciata e l’80% per cento della seconda si intitola ‘Flying’ è un brano totalmente improvvisato e la grandezza del trio si sviluppa in tutta la sequenza della facciata A. Il brano inizia col solo piano che introduce pacatamente, un tema improvvisato all’istante o forse no, poi si aggiungono alla spicciolata il contrabbasso e la batteria e inizia il volo.

La bellezza sta nel sentire il disco a musica elevata tanto che posso spalancare le finestre e offrire il jazz al popolo e ascoltare tutte le sottigliezze del trio. L’alchimia che offre l’evoluzione è decisamente fuori dall’ordinario. I tre musicisti si fondono e si assecondano e anche le solite vocine del pianista fanno da contorno e si amalgamano nel tessuto sonoro, anzi se non ci fossero bisognerebbe inventarle. La bellezza del jazz, a volumi di un certo livello, che puoi ora concentrare sull’assolo del piano, ora sulle vocine e sui ghigni del pianista, ora sull’accompagnamento del contrabbasso che poi diventa un solo, ora sul drumming e sulle bacchette del batterista, ora sugli accordi del pianista sotto o insieme al contrabbasso. Non c’è un inizio o una fine di un solo, tutto si compenetra, si mischia e si confonde, diciamo che qui è doverosa una parola che si usa dire in questi casi, quasi obbligatoria quando c’è da descrivere una siffatta situazione di assoluta convergenza, il nientepopodimenoche sua altezza l’’Interplay’, ecco era doveroso da parte mia nominarla questa parola che tanto ci piace usare in questi casi. Per qualche minuto spariscono il piano e il contrabbasso e la batteria emerge dal magma per poi rientrare delicatamente nell’equilibrio magico dell’insieme che subito dopo diminuisce il ritmo e il volume e tutti e tre i musicisti fanno dei soli contemporaneamente, l’effetto è come se un unico musicista suonasse simultaneamente tutti e tre gli strumenti. Poi la facciata finisce come era iniziata, col solo piano del leader che richiama la melodia iniziale dolce e soave, forse improvvisata all’istante o forse no.
Un volo che però non è finito, ho fatto scalo perché devo girare il disco ed ascoltare la facciata B. ‘Flying parte 2’ inizia sommessamente con le bacchette del batterista che introduce gli altri due compari di scorribande sonore. Anche qui non si capisce se c’è qualcosa di scritto oppure no, comunque l’effetto che produce anche questo lato del disco è che il gruppo funziona alla meraviglia, sembra un treno a vapore con il vento in poppa o una barca a vela che non deraglia mai. Le vocine all’unisono del pianista col suo piano sono uno spasso e una chicca e nel mio monolocale la musica invade ogni anfratto e non posso che essere solo, perché solo in solitudine che si possono cogliere i particolari di un disco, mentre insieme si possono godere e cogliere i particolari di un concerto. Poi il brano procede su ritmi elevati con uno swing o con un groove, chiamatelo come vi pare, di assoluto livello.
Ad un certo punto mi accorgo di una citazione di ‘San Thomas’ di Sonny Rollins, me la sarò inventata? ‘Po esse’, l’alta quota fa brutti scherzi. Dopo l’orgia d’insieme il leader umilmente si ritira e lascia spazio per un assolo del batterista punteggiandolo con le sue caratteristiche vocine. Anche il contrabbasso tace, è il momento di Jack. Dopo l’assolo di Jack l’’ensemble’ si riunisce ma subito dopo Gary reclama spazio e insieme a Jack senza Keith sfodera un assolo con le vocine di Keith che deve sottolineare (Keith nun je la fa proprio a stasse zitto, pe’ fortuna), ancora di nuovo insieme a velocità non indifferenti. Atmosfere finali vagamenti ‘free’ e la velocità rallenta e i musicisti sperimentano con scansioni sperimentali la fine del volo. Siamo nei paraggi dell’aeroporto pronti all’atterraggio. Una volta atterrati e dopo aver avere sbrigato i rituali di rito ci immergiamo in una ballad meravigliosa di Keith, ‘Prism’. Qui il clima è più classico e convenzionale e il brano scivola via che neanche avesse l’olio nei solchi il vinile. Dopo l’esposizione del tema e del relativo solo del pianista, il solo del contrabbasso canonico nelle modalità di esecuzione, con l’accompagnamento del leader e del batterista, poi di nuovo il tema. Ora gli immaginari portelloni dell’aereo sono aperti e finisce qui il volo. Passo e chiudo.