Brew Moore – «Brew Moore», 1963

// di Francesco Cataldo Verrina //

«Esule antico, al ciel mite e severo, leva ora il volto che giammai non rise, tu sol pensando o ideal sei vero». (Giuseppe Mazzini)

Brew More, per lungo tempo, esule nelle gelide terre del Nord, è rimasto in parte sconosciuto alle cronache del jazz. E quando le cose si stavano mettendo bene, incappò in un assurdo incidente: morì cadendo dalle scale dei giardini pubblici di Copenhagen. I suoi lavori di sono un ottimo esempio di cool jazz, in puro stile californiano, che alterna oscillanti escursioni swing a morbide ballate, eseguite con lo stile spaziato e contenuto di Lester Young, ma al contempo con la frenesia vibrante di Charlie Parker.

La sessione in oggetto che ha per titolo il nome del sassofonista, fu registrata il 5 novembre del 1957 al Tropics Bar di San Francisco, ad eccezione di «Dues Blues» registrata presso l’Università della California con un composito line-up: al basso Dean Reilly e John Mosher, alla batteria Bobby White e John Markham, al pianoforte John Marabuto e Vince Guaraldi, al sassofono Brew Moore e Harold Wylie, al vibrafono Cal Tjader. Il disco venne pubblicato solo qualche anno più tardi, nel 1963. Tre su sei sono composizioni originali.

L’album si apre con «Edison’s Lamp», un bop up-tempo, vera vetrina espositiva per i componenti del line-up, dove ognuno si ritaglia un pezzettino di gloria negli interstizi, facendo da collante alle fughe solitarie del band-leader. Per gli amanti del West Coast Jazz, «Nancy With The Laughing Face» è davvero una manna dal cielo. Scritta da Jimmy Van Heusen e Phil Silvers e lanciata originariamente da Herbie Mann, è una di quelle ballate dall’andamento sinuoso, eseguita con una classe sopraffina nel segno di Stan Getz, dove il sassofono di Brew accarezza le note rilasciando nell’aria un intenso lirismo ed un lancinante pathos. Solo questa seconda traccia, presente sulla prima facciata dell’album, da sola varrebbe l’intero prezzo della corsa. In «Marna Moves», unica composizione che porta la sua firma, Moore dimostra di aver imparato a menadito la lezione di Charlie Parker, trascinato da un’ottima sezione ritmica ed imbeccato dall’eccellente pianoforte di John Marabuto, autore tra l’altro di due splendide tracce: «Pat’s Batch» e «Rhode Island Red». Il momento più gratificante per gli amanti del cool, è certamente «Dues Blues», una fumosa ballata dal sangue blues, dove il sassofono di Brew ricama armonie dilatate, a volte sottotraccia, in memoria di Lester Young.

Ma vediamo di capire che è stato Brew Moore. Morto tragicamente a soli 49 anni, il sassofonista esule a Copenhagen, come molti jazzisti Americani della prima ora, aveva trovato una nuova casa nelle algide terre dei Vichinghi, forse più calda, remunerativa ed accogliente, rispetto alla madrepatria. Brew Moore fu un ottimo sassofonista tenore, purtroppo sconosciuto alla moltitudine dei jazzofili. Avviato agli studi musicali da bambino, dapprima con il trombone, poi il clarinetto, quindi il sax tenore, venne ispirato ed influenzato dallo stile di Lester Young, ottenendo il suo primo ingaggio professionale in una band territoriale texana, durante l’estate, prima di iscriversi al college. L’avvento del bebop cambiò completamente il suo orizzonte musicale, come ebbe a dichiarare ad un critico del New York Times, John Wilson, nel 1968: «Quando ho sentito cosa Bird era riuscito a fare per sé stesso e per il jazz, mi sono reso conto che Pres (Lester Young) non era proprio il messia. Quindi ho cercato di ottenere un mio suono che combinasse le istanze e le intuizioni di Bird e Pres».

Giunto a New York nel 1948, Brew Moore divenne un personaggio di rilievo della movimentata scena jazz locale, pubblicando il suo primo album come leader. «Brew Moore and His Playboys», per Savoy Records e lavorando per la Big Band di Claude Thornhill ed il Sestetto di Stan Getz e George Wallington. Nel 1949 si unì a tre dei cosiddetti Four Frothers di Woody Herman (Stan Getz, Zoot Sims, Al Cohn), collaborazione che portò all’album «The Brothers» per la Prestige. Il pianista Gene Di Novi lo descrisse come «un esecutore naturale e spontaneo». Ricorda che una volta gli disse: «Dovresti approcciarti al sassofono come un bambino: raccoglierlo e soffiare. Aveva i capelli biondi e color paglia, con la pettinatura di un contadino, era una persona molto semplice e adorabile».

Nel 1954 lasciò la Grande Mela per la West Coast, stabilendosi a San Francisco dove trovò un ambiente congeniale. Nel 1959, a causa del forte consumo di alcolici, si ritirò dalla scena, per poi ricomparire in Europa con sede a Copenaghen, in Danimarca, dove continuerà ad esibirsi per il resto della sua vita, collaborando con Kenny Drew e Sahib Shihab, Niels-Henning Ørsted Pedersen ed Alex Riel.

Nell’agosto del 1973, tornato a Copenaghen da un viaggio negli USA dove si era recato per sistemare gli affari del defunto padre (ironia della sorte, dopo anni di incertezza economica, era arrivava una sostanziosa eredità), in una notte agitata, di musica e alcool, cadde da una rampa di scale nei giardini pubblici, procurandosi gravi ferite e lesioni che ne causarono la morte. Brew Moore ha inciso otto album come band-leader e tre come sideman, insieme a Stan Getz, Zoot Sims, Ray Nance e Chuck Wayne. Sicuramente vale la pena cercarli ed approfondire la discografia di un altro talento poco segnalato dalle cronache del jazz.

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