Art Blakey & The Jazz Messengers – “A Night In Tunisia”, 1961

// di Francesco Cataldo Verrina //

Alla domanda che cosa sia l’hard bop, molti rispondono: The Jazz Messengers. In verità Art Blakey e la sua band, pur nella mutevole e cangiante roulette di numeri e personaggi, ne rappresenta storicamente l’incarnazione vivente, almeno nell’immaginario collettivo di massa. Ci siamo più volte chiesti se i vari cambi di line-up costituissero un limite o un vantaggio per l’estroso Blakey che era solito dire: “Cerco sempre di individuare tra i miei collaboratori dei potenziali leader-band. Lasciateli crescere al mio fianco e presto diverranno a loro volta attori principali sulla scena jazz con la loro musica ed una band al seguito”. Su questo non si è mai sbagliato.

Ascoltando i vari tasselli della discografia dei Jazz Messengers, ad onor del vero, ci sia accorge che non esistono repentini cambi di umore e di stile, ma un unico denominatore sonoro comune dettato dal “vecchio” demiurgo della batteria. “A Night In Tunisia” non è certo il miglior album della discografia dei Messaggeri, ma tra i tanti lavori registrati emerge svettando una spanna più in alto. E’ talmente elevato il livello di eccitazione, che Blakey sembra quasi volersi fare beffe di se stesso divenendo una metafora dei coinvolgimento totale dell’uditorio bop, all’epoca, formato essenzialmente da “hungry minds and young hearts”. Certamente il jazz in quegli anni viveva una stagione assai felice con una forte aderenza alla realtà sociale e all’universo giovanilistico.

Lee Morgan era un trombettista al top della condizione, Wayne Shorter, al sax tenore, sebbene all’inizio della sua carriera, riusciva a stagliarsi come una figura determinante per l’organico, Bobby Timmons, che in seguito avrebbe ceduto alle molte tentazioni sul cui altare il mondo della musica con i suoi falsi miti sacrificava i più deboli ed i più sfortunati, possedeva tutti gli attributi di un pianista di rango; perfino il tanto trascurato Jymie Merritt era un bassista preparato, abbastanza esperto da non essere mai sopraffatto in una compagine di questo livello; per completare il roster si aggiunga il genio onnipresente di Blakey, una delle menti più fervide e geniali della storia del jazz moderno: il suo drumming in questo album è sontuoso ed imponente. La title-track “A Night In Tunisia” di Gillespie ritrova nuova linfa vitale in una lunga e tambureggiante maratona di oltre undici minuti, tanto da poter essere classificata come la versione definitiva tra le centinaia disponibili.

Le note di copertina definiscono l’album come “spettacolare, stimolante, poliritmico, infuocato” con un Blakey in vena di follie che sferza i tamburi e trascina il line-up sul tetto del mondo. La prima linea occupata a ruota da Morgan, Shorter e Timmons incarna i voleri del capo che, insieme al bassista Merritt, fornisce li giusto apporto ritmico. Il giovane Shorter firma “Sincerely Diana”, componimento dalla struttura apparentemente semplice, che garantisce assoli a tutto tondo e molto immediati da fruire, ma frutto di una complessità creativa non comune. “So Tired”, composizione assai conosciuta ed attraente di Timmons, vine proposta in un’edizione molto più insanguata di blues. “Yama” e “Kozo’s Waltz” sono farina del sacco di Morgan e consentono alla tromba un emozionante percorso ricco di pathos; dal canto suo Shorter tenta qualche uscita più trasversale imbecca dall’effluvio zampillante del pianoforte, mentre il boss allenta la morsa per allargare lo spazio espositivo dei sodali. Ogni traccia è un gioiello di hard bop portato all’ennesima potenza.

Registrato il 14 agosto del 1960 allo studio VanGelder, in “A Night In Tunisia” sono presenti tutti gli elementi che fanno di un veloce set un piccolo capolavoro. Barbara J. Gardner, scrisse: “Questo album è un ottimo esempio del desiderio espresso da Blakey di mettere in mostra i suoi giovani talenti. Non solo c’è ampio spazio come solista per i vari musicisti, ma nello specifico, tranne la title-track, tutti i brani sono stati scritti ed arrangiati da questi talentuosi e giovani cittadini del jazz presenti nel suo gruppo”.

Art Blakey