Sonny Rollins – «Reel Life», 1982

// di Bounty Miller //

Alcuni suoi suoi dischi degli anni Ottanta sono stati spesso snobbati sia dai soliti nostalgici che dai puristi, anche perché, il Colosso in quel decennio preferì la forma combinata e semi-acustica, ricorrendo quasi sempre ad una chitarra ed un basso elettrico. Siamo nel 1982 ed il sassofonista di Harlem, poco più che cinquantenne, dimostra di essere ancora musicalmente coinvolgente e di avere un’ottima scorta di frecce acuminate nella faretra, pronte ad essere scagliate alla bisogna, «Reel Life» è uno dei momenti più elevati della discografia rollinsiana degli anni ’80.

Dopo qualche battuta d’arresto, la carriera del Colosso era ancora a trazione anteriore: la riconosciuta fedeltà al bop, le essenze caraibica e le speziature soul-funk della sua pozione sonora continuavano ad inebriare folte schiere di sostenitori in ogni dove. Per «Reel Life», Sonny optò per l’accompagnamento alternato di due chitarristi elettrici e distintamente diversi, Bobby Broom e Yoshiaki Masuo, del bassista elettrico Bob Cranshaw, collaboratore di vecchia data, e di Jack DeJohnette, batterista eclettico e multitasking. La title-track «Reel Life», usata come opener, diventa un vetrina espositiva per il superbo assolo di chitarra elettrica di Bobby Broom, ma l’attacco di sax del band-leader, intriso di melodia ed innestato su un mood funkified, non è da meno: i suoi toni dorati, non accompagnati per le prime tre battute preparano la scena ai sodali, mentre l’humus complessivo del costrutto sonoro affonda le radici nella storica «St.Thomas».

Rollins combina finezza ed estro con estrema fluidità, mentre colora i corposi groove del bassista Bob Cranshaw e del batterista Jack DeJohnette, divincolandosi come un surfista attraverso la marea armonica dei due chitarristi. In «McGee» emergono taluni elementi più tradizionali, dove l’hard bop e l’easy swing diventano dei punti chiave, ma la sezione elettrica stempera ogni tentativo di precipitare nel nostalgismo, mentre il groove di Jack DeJohnette regge la spina dorsale agli assoli del sassofonista. È difficile non sprofondare nelle effervescenza spumosa di «Rosita’s Best Friends», un jazz-calypso corroborato da poliritmi caraibici e calato in un’atmosfera festosa e carnevalesca, con una chitarra acustica alimentata ad energia solare e ravvivata dallo scintillio del tipico marchio di fabbrica rollinsish. «Sonny Side Up» possiede la lucentezza del soul, portando nel costrutto la tipica funkiness del groove incisivo e martellante, mentre Bob Cranshaw elabora una delle più riuscite linee di basso che dirottano il convoglio verso un concept vagamente fusion. In «My Little Brown Book» Rollins ritrova la strada del blues attraverso una suadente ballata profondamente emotiva e senza tempo, tanto da coinvolgere l’intera truppa in un afflato collettivo ricco di pathos e sprazzi di melodia a presa rapida.

Con «Best Wishes» l’album raggiunge il suo climax espressivo, passando dall’antico swing al funk moderno con estrema disinvoltura, mentre l’assolo di Broom sottolinea il matrimonio fra i due stili. I chitarristi agiscono per contrasto e diversità, con Broom che affonda le proprie radici R&B nell’humus di Chicago ed il giapponese Masuo foriero di sonorità più metalliche che fanno da cassa di risonanza al pungente basso di Cranshaw ed al drumming fluente e risoluto di DeJohnette. Nel mezzo c’è Sonny Rollins, a suo agio nel guidare la band e nell’essere il fulcro del set che, per alcuni aspetti, stabilisce un nuovo standard operativo. L’album si chiude con «Solo», brano contenente una fuga in solitaria del Colosso che, per la ricchezza di sfumature, sembrerebbe un’orchestra di cinque sassofoni intenti a suonare contemporaneamente. «Reel Life» non fu una svendita ai saldi di fine stagione o una mercantile scimmiottata della fusion, ma seppe esaltare il melodismo tipico del sax di Rollins con una miscela in stile quartetto jazz-funk, creando un insieme di sonorità estremamente originali. Inizialmente non stampato in USA e destinato al resto del mondo, l’album fu in grado di colmare il divario tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, rappresentando uno degli aggiornamenti più significativi del sassofonista ancora in tutto il suo splendore.

Sonny Rollins alla Casa Bianca