“Lou Donalsdon, classe 1926, incarna una delle figure leggendarie della grande epopea del jazz moderno con oltre un centinaio di sessioni come band leader e decine di partecipazioni ad album epocali in veste di sideman”.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Lou Donaldson – “Lou Takes Off”, 1957

Come tutti gli alto-sassofonisti della sua generazione venuti alla ribalta negli anni ’50, Lou Donaldson suonava come un figlio adottivo di Charlie Parker. In quegli anni la stampa aveva coniato il termine “Bird’s children”. Pur non tradendo mai la sua matrice parkeriana, Lou Donaldson aveva assorbito e sintetizzato altre influenze pre-Bird, come Johnny Hodges e Benny Carter, sviluppando in breve tempo un approccio assai personale al jazz ed acquisendo i tratti dell’immediata riconoscibilità per il suo timbro più soulful e bluesy, tanto da beccarsi il nomignolo “Sweet Lou.

Il contraltista conosceva bene le dinamiche e la veloce sintassi del bop, ma amava suonare spesso le ballate, accarezzando le note con il sax, sino a farne emergere l’anima. “Lou Takes Off”, registrato il 1957 al VanGelder Studio, vede Donaldson affiancato da altri giovani talenti: Donald Byrd tromba; Curtis Fuller trombone; Sonny Clark pianoforte; Jamil Nasser basso; Art Taylor batteria. Tutti questi quasi debuttanti avrebbero avuto una carriera significativa ed è interessante ascoltarli in questa fase iniziale; in particolare un già brillante Lou Donaldson, che dimostra la capacità di saper legare tutto l’insieme e di condurre i sodali sul terreno a lui più congeniale: un effervescente pacchetto sonoro a base di bop e soul.

L’album segna un periodo di evoluzione prima di uno spostamento stilistico verso un’enfasi ritmica più marcata. Tre brani sono up-tempo, abbastanza lunghi ed puro stile bebop; ad eccezione di “Strolling In”, a firma Donaldson, che assume i connotati di un blues medio lowdown, caratteristico del periodo hard bop, dove il suono di Fuller offre una ricca varietà di sfumature, quasi che il trombonista avesse inventato un nuovo strumento, mentre il pianoforte di Clark è così intrigante e convincente, da far rimpiangere una volta di più la sua prematura scomparsa. In apertura “Sputnik” composto da Donaldson. lancia subito la band a briglie sciolte, con il band-leader che riflette inequivocabilmente l’influenza di Charlie Parker, a fare da collante, unendo melodia e ritmi pulsanti è un giovane Donald Byrd, la cui brillante intonazione alla tromba completa alla perfezione il pastoso calore emanato dal sax di Donaldson, mentre la sezione ritmica è trascinata dal drumming mozzafiato di Art Taylor.

“Dewey Square” di Charlie Parker, si esalta in un assolo di Sonny Clark, ricco di contrasti con quel suo modo di suonare il piano in maniera ritmicamente sofisticata e seriamente giocoso al contempo, a fluidificare lo sviluppo melodico della melodia ci pensa Curtis Fuller, il quale stava elaborando, in quegli anni di formazione, una sua tecnica intagliata sullo stile di J.J.Johnson. “Lou Takes Off” non è un set rivoluzionario, però è storicamente importante, una sessione bruciante, vivida, solida, ricca di estro giovanile e di genialità in divenire, ma con esecuzioni di alto livello

Lou Donaldson – “Sonny Side Up”, 1960

Lou Donaldson era considerato quasi un prolungamento di Charlie Parker, sua maggiore influenza. Si narra che il contraltista avesse perfettamente acquisito lo stile di Bird senza ricalcarlo in toto, ma arricchendolo con l’aggiunta una nota in più, quasi un ingrediente segreto, nonché un piccolo distillato a base blues e soul ricavato da Coleman Hawkins. Veloce, competitivo, imprendibile a certe temperature e talune latitudini sonore, Donaldson è stato uomo di punta del roster Blue Note, con cui ha realizzato alcuni dei dischi più significativi della sua lunga carriera, all’interno della quale ci sono state non poche mutazioni stilistiche.

Non è difficile trovare unanimi consensi sul fatto che, insieme a “Blues Walk”, “Sonny Side Up”, di certo non per genialità compositiva, sia uno degli album più rappresentativi del contraltista, se non altro perché rappresenta una sorta di spartiacque ed un momento di passaggio. Non è casuale il fatto che ciò sia avvenuto nel 1960, anno fatidico e punto di svolta per l’intero popolo del jazz. Chiunque, a modo suo, avvertì un’aria di rinnovamento, ma soprattutto venne aggredito da un divorante desiderio di cambiamento. Donaldson è alla guida di un quintetto standard, con Bill Hardman tromba, Horace Parlan piano, Al Harewood batteria, Sam Jones e Laymon Jackson che si alternano al basso.

Detto in soldoni, con “Sonny Side Up” il sassofonista entra nella sua fase pre-soul, nell’accezione più larga del termine. Il tracciato sonoro è molto più vicino all’hard bop che non allo straight-ahead bop tipico dei dischi realizzati da Donaldson, negli anni ’50, in casa Lion-Wolff. Il sentimento e l’anima prevalgono rispetto alla spettacolarità muscolare del passato recente; soprattutto molti meriti vanno al pianista Horace Parlan che aiuta, sostiene ed amplia la nuova avocazione del band-leader. Perfetta la sponda offerta da trombettista Bill Hardman, determinante in prima linea a stemperare gli eccessi virtuosistici di Donaldson; ultimo , ma non meno importante il sostegno di una compatta ed autorevole sezione ritmica.

Registrato negli studi Van Gelder, il 5 ed il 28 febbraio del 1960, l’album si apre con “Blues for J.P.” a firma Horace Parlan, che evidenzia subito la metamorfosi in atto nello stile di Donaldson; il costrutto sonoro è imperniato su un tempo medio-alto con una convincente dichiarazione di intenti da parte di Hardman che ricorda vagamente Donald Byrd: la sua tromba spiana il terreno al band-leader che sviluppa un assolo concreto, ma non muscolare, lontano dalle irrequiete performance del passato. Il sassofonista non divora più i cambi come una belva affamata, ma scende in profondità, masticando bene le note che emettono stille di blues insanguate di soul; accorato il supporto della retroguardia ritmica. Paradossalmente “The Man I Love” di Gershwin sembrerebbe una falsa partenza muovendosi con un passo assai lento, ma l’umore cambia improvvisamente e Donaldson irrompe con un assolo up-tempo più simile a quelli di un vecchio frequentatore del velodromo bop, inerpicandosi in una serie di fraseggi complicati, ma, per compenso, caratterizzati da un ottimo ornamento melodico e da un ritrovato senso di contenimento dello swing.

“Politely” scritto da Bill Hardman è un blues metropolitano in chiave minore contrappuntato da un movimento funkified lento e corrosivo, che diventa una vetrina per Sam Jones, il quale dimostra come una linea di basso possa determinare l’assetto complessivo di una struttura sonora. Donaldson si muove arioso e spaziato con particolare attenzione all’impianto melodico. “It’s You or No One” è un evergreen di repertorio rimodulato attraverso un overclocking dinamico che consente a Donaldson di non tradire del tutto il suo imprinting e non perdere completamente l’istinto da bopper competitivo e su di giri. Si potrebbe banalmente sostenere che il lupo perda il pelo ma non il vizio, ma “The Truth”, componimento originale di Donaldson, conferma la nuova direttrice di marcia della sua musica L’andamento lento è sorretto da un blues strisciante ed ammantato in un’atmosfera gospel quasi divagante e spirituale, grazie all’accompagnamento cadenzato del piano di Parlan. Lo spazio ed il tempo, alquanto dilatati, trasformano il sassofonista in una sorta di prestidigitatore in grado di estrarre varie opzioni dal cilindro, alternando sofferenti stille di blues a linee melodiche più rapide ed adamantine, arricchite da cambi a getto continuo.

“Goose Grease” è ancora farina del sacco di Donaldson, dove una fosca tagliente aria da funk metropolitano fa sembrare il bop roba per vecchi giocherelloni. L’irrequieto Lou oltrepassa il guado, anche se il dado non sembrerebbe mai tratto. Però la filosofia che guida il line-up adesso è un’altra: soul e blues sembrano coalizzarsi sostenuti da Al Harewood che mette in risalto la voglia di funk del suo band-leader sviluppando una pattern a temperatura costante. Donaldson ed il batterista complice scandagliano entrambi le profondità dello swing, ma è Parlan ad assicurare il punto vincente alla squadra con un ricamo funkified lungo e dilatato, griffato e riffato di blues, innestato su un ritmo incrociato, tanto da determinare una contagiosa tensione molecolare. “Softly as in a Morning Sunrise” allontana sempre di più Donaldson dal suo brand originario, dipingendo una rilassata e vacanziera atmosfera da jazz del Pacifico. Harewood spazzola il tempo ed il ritmo, mente Hardman prende il comando con una sordina da brividi; mentre il trombettista suona in maniera diretta e priva di fronzoli, la sordina diventa un’arma di seduzione di massa; dal canto suo Donaldson lo segue ammirato muovendosi anch’egli a passo felpato come un gatto nella notte.

I cercatori di cavilli rilevano qualche citazione di troppo, ad esempio “Flight of the Bumblebee” percepibile su “Blues for J.P.” , così come un frammento di “Pop Goes the Weasel” presente su “Politely”. In fondo sono solo elementi ispirativi che non inficiano minimamente l’importanza di “Sunny Side Up”, una sessione scorrevole nonché album di notevole spessore esecutivo e creativo, soprattutto poiché dato alla luce in un periodo di transizione, dove il sassofonista si lasciava alle spalle il duellante bop, cominciando a misurarsi sul terreno dell’attualità. Il contraltista aggiunse solo più pathos e liricità senza tradire il suo modus operandi, il timbro facilmente riconoscibile ed quei fantasiosi assoli che l’avevano sempre caratterizzato.

Christian McBride e Lou Donaldson