”Getz At The Gate”, l’album inedito di Stan Getz, una sorprendente riscoperta.

Tutti i dischi inediti dei vari personaggi iconici del jazz moderno, provenienti da registrazioni smarrire e poi ritrovate, accantonate e poi riprese, appagano un’implacabile sete ed una fame collettiva di jazz legato alla grande epopea degli anni ’50 e ’60. Nell’ultimo lustro i ritrovamenti vari hanno placato il desiderio dei cacciatori di inediti, pensiamo ai recenti Davis, Rollins, Coltrane, Monk e Mingus. Nel 2019 fu immesso sul mercato un rinvenimento eccellente, ricavato da un live del 1961 di Stan Getz, registrato poco prima che il sassofonista tenore abbracciasse la causa della bossa nova.

Le 15 tracce, distribuite in un album getfolder contenente tre LP (sono disponibili anche su un doppio CD), provengono da un’esibizione al Village Gate di New York, risalente al 26 novembre del 1961. Il materiale venne registrato professionalmente e con dispiegamento di mezzi e di uomini, poiché destinato alla pubblicazione. Non si può parlare, dunque, di nastro perduto o scomparso per 58 anni e poi riscoperto per caso; semplicemente, il progetto venne accantonato perché, dopo il contratto con la Verve, Getz si era tuffato anima e corpo sul progetto legato alla musica brasiliana.

Nel 1956, problemi tributari avevano costretto Stan Getz a trasferirsi in Danimarca, pagando a rate, tramite posta da Copenaghen, quanto dovuto al fisco americano; quindi il sassofonista rientrò negli Stati Uniti il 19 gennaio 1961, dopo aver estinto il debito con l’IRS (Internal Revenue Service, l’agenzia governativa deputata alla riscossione dei tributi).

Una delle motivazioni che spinse Getz a tornare in patria fu la morte del bassista Oscar Pettiford avvenuta nel settembre del 1960 a Copenaghen. Dalla biografia di Getz scritta da Donald Maggin, apprendiamo che il sassofonista tenore aveva bisogno di cambiare aria, avendo accusato un brutto colpo con la dipartita di Pettiford a cui era particolarmente legato: “Pettiford è stata l’unica intelligenza musicale con cui Stan riusciva ad esplorare costantemente le innovazioni del jazz. Il senso di vuoto e di isolamento artistico aumentarono drammaticamente quando Pettiford morì“.

Una volta tornato a New York, Getz si sarebbe reso conto di come la scena musicale non fosse più la stessa. Con l’ascesa di John Coltrane, Sonny Rollins e Ornette Coleman, i quali proponevano un sound più aggressivo e libero, l’approccio di Getz, morbido e pacato, influenzato da Lester Young sembrava datato ed obsoleto. Fortunatamente, un vecchio amico, il produttore Creed Taylor della Verve gli fece a firmare un contratto con la sua etichetta. Per tutto il 1961, Stan, con la guida di Creed, lavorò metodicamente per ricostruirsi una nuova credibilità e reputazione nell’ambito della scena newyorkese; e la registrazione del live in oggetto era destinata, originariamente, a rimettere in circolo il suo nome ed il suo sound. Il set nacque dalla collaborazione di un inedito quartetto: il pianista Steve Kuhn, il bassista John Neves e il batterista Roy Haynes.

L’idea di Getz fu quella di esplorare delle sonorità più aggressive ed oblique. Kuhn aveva da poco lavorato con il John Coltrane Quartet prima dell’arrivo di McCoyTyner, mentre la crescente popolarità di Trane stava influenzando sicuramente il nuovo approccio di Getz, il quale si rese subito conto di non essere sulla strada giusta. La virata verso un genere diverso, più immediato e remunerativo, fu inevitabile: il 1962 si rivelò essere un anno assai proficuo grazie “Jazz Samba”, seguito a breve da “Jazz Samba Encore” nel ’63. quindi da “Getz/Gilberto” nel ’64. Si dice che a Getz non fosse mai importato più di tanto delle registrazioni nello stile bossa nova, nonostante la fama e la fortuna che gli avevano arrecato. Il sassofonista era consapevole che la bossa fosse ritenuta un genere più easy ed ebbe sempre come la sensazione che i veri cultori del jazz lo avessero considerato alla medesima stregua di uno che sia era svenduto per un pugno di dollari.

In quel periodo, Getz era divorato dal desiderio di rimanere sulla scena jazz e rivaleggiare bonariamente con John Coltrane, il quale peraltro aveva grande stima di lui. L’album in oggetto, che oggi noi scopriamo ed apprezziamo, fu un’occasione mancata, poiché presenta un Getz potente e deciso; sia pure in un momento critico e incerto della sua carriera, egli risulta determinato a ritrovare forma e credibilità. Siccome il successo arrivò inaspettato, qualche mese dopo, con “Jazz Samba”, la Verve decise di accantonare quello che noi oggi conosciamo con il titolo di “Getz At Gate”, un disco straordinario che avrebbe consegnato ai posteri un differente idea del personaggio Stan Getz, troppo spesso associato in maniera riduttiva al genere brasiliano.

I presupposti c’erano tutti: il pianoforte di Kuhn è sorprendente; il suo modo di suonare risulta piacevolmente distinto e caratterizzato; i suoi accordi di blocco e le battute, influenzate dallo stile di Bud Powell, si spalancano verso il futuro con un tocco efficacissimo, nonostante la giovane età e la tecnica non del tutto definita. Roy Haynes era un veterano, considerato uno dei più festrosi batteristi jazz, al pari di Elvin Jones.; John Neves era uomo di squadra, pefettamente al serviszio del band-leader, capace di strutturare un impianto ritmico preciso e lineare; lo stesso Getz nonostante abbia suonato come sapeva fare, si concede alcuni rischi, operando qualche soluzione più angolare, emettendo dei riffs più incisivi e giocando con un fraseggio a volte più aggressivo e dinamico, nel tentativo di rianimare il suo marchio e ravvivare il suo sound.

L’album include diversi brani che il sassofonista tenore aveva già registrato negli anni ’50, tra cui “When The Sun Comes Out, “Like Someone in Love” e “Spring Can Hang You Up Most” ed alcuni pezzi per lui inediti, quali “It’s Alright with Me” e “Yesterday’s Gardenias”. Getz, da sempre conosciuto ed apprezzato soprattutto come musicista “cool”, caratterizzato dall’incedere moderato e legato allo stile West Coast, in queste registrazioni rivela un’anima più “nera” ed emotiva, specialmente sui cori up-tempo di “Airegin”, così come nella sua personale lettura “Where Do You Go?”, una morbida e tenera ballata, intrisa di soul. È importante sottolineare, ma non deve meravigliare più di tanto, il fatto che vi sia solo un pezzo, “Blues”, firmato Stan Getz, in un triplo album composto principalmente da standard e alcuni brani iconici di altri giganti del tenore, quali “Airegin” (Sonny Rollins), “Impressions” (John Coltrane) e “Jumpin ‘With Symphony Sid” (Lester Young), così come il classico di Dizzy Gillespie “Woody’ N You” e “52nd Street Theme” di Thelonius Monk.

“Getz At The Gate” è un piccola manna dal cielo per tutti gli appassionati di jazz, una prova eccellente che ha resistito all’usura del tempo e che oggi supera abbondantemente anche il test della qualità sonora; più che un “gate”, un cancello chiuso, si sostanzia come una specie di porta scorrevole tra passato e presente; di certo, dovrebbe far parte anche della vostra collezione di dischi.