// di Francesco Cataldo Verrina //
A volte ci si domanda, quale sia l’ultimo domicilio conosciuto del jazz, che sembrerebbe essere quasi sparito nel nulla, soprattutto nella sua formula più autentica o comunque occultato da una serie di agenti contaminanti e corrosivi; per non contare gli innumerevoli mistificatori che spacciano per jazz, qualche maldestro ed insipido intruglio sonoro di varie ed eventuali, “Between” di Vittorio Cuculo, pubblicato dall’Alfa Music è un distillato di jazz in purezza, dove il titolo definisce i confini e mette dei paletti: quel “fra”, che indica inequivocabilmente un legame tra il passato, il presente ed il futuro del jazz, fra tradizione e modernità, ma attraverso delle regole d’ingaggio che rispettino la forma e la sostanza del jazz, a cominciare dalla scelta di operare nell’aveo del classico quartetto e soprattutto grazie alla propensione da parte del giovane sassofonista di misurarsi con la tradizione, scegliendo un repertorio misto, fra storia ed attualità, fatto di composizioni originali, classici e standard.
Vittorio Cuculo, pur essendo molto giovane, vanta già molte collaborazioni importanti ed ha accumulato una notevole esperienza, tanto da essere approdato a questo debutto discografico con sicurezza, dimostrando maturità, autorevolezza e lucidità d’intenti. La selezione del materiale sonoro, specie se misto, per un giovane esordiente potrebbe essere una sorta di campo minato, ma in questa circostanza, non solo le scelte sono state oculate, la track-list, tra vecchio e nuovo, risulta armonica e scorrevole, ma Cuculo esprime una forte personalità esecutiva, decisamente non comune che, pur misurandosi con regole e linguaggi, riti e miti preesistenti, riesce ad imprimere al progetto un marchio originalissimo del tutto riconoscibile.
Il quartetto costituisce l’ambientazione più confacente alla dimensione sonora scelta da Vittorio Cuculo, il cui sax alto (o soprano) diventa l’io narrante e la guida di una storia completata da un ottimo line-up: Danilo Blaiotta al pianoforte, capace di offrire un variegato sostegno armonico e di favorire ottimi passaggi nell’interplay, Enrico Mianulli contrabbasso, un apporto sicuro dalle retrovie e Gegè Munari, alla batteria, uomo di lunga esperienza e con importanti collaborazioni internazionali. Da segnalare anche la presenza di un violino, suonato da Enrico Cuculo (fratello di Vittorio) nell’ultima traccia dell’album; una scelta insolita, poiché trattasi di “Vedrai Vedrai” di Luigi Tenco, riproposta con un’intensità ed un lirismo da manuale e che da sola vale l’intero prezzo della corsa, senza togliere nulla a tutto il resto. I grandi jazzisti hanno sempre fatto ricorso all’AmericanSongsBook. Ecco, dunque, la dimostrazione che esiste un ItalianSongsBook, cui attingere melodie immortali, soprattutto la versione di “Vedrai Vedrai” non sfigura al confronto con un’altra ballata standard ripresa per l’occasione, “In A Sentimental Mood” di Duke Ellington o con l’originale “Ogni Notte” scritta dal pianista Danilo Blaiotta e disegnata dal musicalmente da Cuculo attraverso un delicato affresco di sentimenti in agro-dolce, dove la punta acuminata del sax trafigge il cuore degli amanti come la freccia di Cupido.
L’album si apre con “Ce la posso fare”, brano originale firmato da Roberto Spadoni, eccellente musicista e compositore, che diventa anche il biglietto da visita della personalità di Vittorio Cuculo. La struttura del pezzo gli permette di mettere subito in evidenza i suoi talenti, attraverso un fraseggio veloce e fluente, caratterizzato da un inciso a presa rapida; le idee sono molteplici, mentre ottimo risulta il gioco del piano a metà via e determinante il sostegno della retroguardia ritmica. Dopo due ascolti, è già un tormentone, soprattutto l’opener citato non sfigura per nulla al cospetto delle due tracce successivi, in particolare di “In Walked Bud” di Thelonius Monk, un bop scattoso ed energico, rivitalizzato con uno andamento più trasversale ed un un ricco contributo di elementi improvvisativi; nessun complesso d’inferiorità nel riportare a nuova vita “This I Dig Of You” di Hank Mobley, che dopo un lunga introduzione pianistica, diventa oggetto delle cure del sax di Cuculo che, attraverso un’energia torrenziale, lo rivolta come un calzino e lo rianima, tendendo l’arco del registro sonoro, sempre proiettato verso l’alto.
Il livello cresce con una composizione originale, “I Don’t Need A Thing” firmata dal bassista Enrico Mianulli, ottimo mid-range ad alto tasso swing e dal sapore apparentemente tradizionale, ma portato su un terreno angolare soprattutto dalle circonvoluzioni del sax. E’ questo uno momenti più riusciti dell’album, soprattutto per l’inventiva dei musicisti e per il dualismo contenuto nel brano, che sembra rappresentare, con estrema sintesi, tradizione e contemporaneità del jazz mainstream. Non è da meno l’altro componimento originale, sempre a firma Enrico Mianulli, “Mr,Gomez” con tutta probabilità dedicato al bassista Eddie Gomez, un gioiellino di bop progressivo dal movimento flessuoso e latino. La ripresa di “Cherokee”, sia pur suonata con precisione e velocità supersonica, al limite delle vertigini, di per sé risulta un po’ scontata, ma potrebbe avere il suo perché se si riesce a trovare un legame ideale con “Night Bird” di Enrico Pieranunzi. Interessante la scelta dello standard di Cole Porter, “You’d Be So Nice To Come Home To”, soprattutto a suggello di un variegato menù, armoniosamente servito su un vassoio d’argento a metà strada, “Between”, fra tradizione e modernità.
Ed a proposito di menù, all’album nel suo complesso diamo almeno 4 stelle. A parte qualche eccessivo riferimento al “parkerismo”, inevitabile per qualsiasi contraltista, volendo trovare un difetto a “Between” del Vittorio Cuculo Quartet, si scopre che è quello tipico dell’opera prima, dove sincerità e spontaneità sovrabbondano, poiché colti dalla voglia di raccontare quanto si è accumulato durante la fase erigenda della propria formazione ed, a volte, si procede per eccesso. Non è, però, un vero difetto. Come dicevano i Latini: melius abundare, quam deficere!
