// di Bounty MIller //

Premesso che nel jazz esistono migliaia di dischi che si equivalgono per qualità, ma forse solo un centinaio sono assurti agli onori della cronaca ad imperitura memoria; per contro altri si sono calcificati solo nella mente o nei ricordi dei veri cultori, studiosi ed appassionati, lavori che se fatti riemergere potrebbero arricchire non solo la collezione, ma anche la vita di chi sa muoversi seguendo qualche parametro di ricerca non consueto. Aggiungiamo un altro dettaglio non trascurabile: esistono centinaia di sessioni dove hanno suonato più o meno gli stessi musicisti, nell’ambito di una rosa costituita da una trentina di “giocatori” (di “players” volendo usare un dizione anglofona) sopraffini, eppure molti di quegli album, frutto di set eccellenti, sono finiti nel dimenticatoio.

I dischi che hanno superato l’usura del tempo ed i cambi di umore e di stagione non sono tutti capolavori, ed anche quando lo sono, si discostano da dischi misconosciuti solo per pochi dettagli. La cerchia dei capolavori assoluti è davvero ristretta, ed anche qui insorgono vari elementi, diciamo propiziatori: fortuna, tempismo, l’essere nel posto giuso al momento giusto, il favore della critica, una buona azione di marketing da parte della casa discografica, piuttosto che la longevità degli artisti coinvolti nel progetto. Paradossalmente, nei casi in cui certi musicisti di talento hanno avuto vista breve e troncata da tragici aventi, la loro sia pur esigua opera ne ha beneficiato, poiché il mito dell’artista “maudit” si amplifica per eccesso: il cosiddetto fascino della gioventù bruciata.

Uno dei capolavori nascosti che oggi facciamo riemergere è “Funky” di Gene Ammonds. L’album fu pubblicato dalla Prestige Records nell’estate del 1957, mentre tutti i brani erano stati registrati in un’unica seduta l’11 gennaio dello steso anno, al solito Van Gelder Studio, con la produzione di Bob Weinstock.

Come tutte le session all-star degli anni ’50 guidate da Gene Ammons anche questa ripropone una bella miscela di hard-bop, con un’intuizione geniale, almeno vent’anni prima di tanti musicisti indirizzati verso la fusion, ossia l’aver capito che il funk, quale fratello “maleducato” del jazz, è quello che gli regge meglio il gioco. Non che questo abbia minimamente il sentore di un disco fusion, mai il classico swingin’ spesso lascia il campo libero al funky-funky con atmosfere più secche e taglienti, meno oscillanti, mentre le progressioni sonori sembrano descrive più ambientazioni metropolitane rispetto alle limacciose paludi del blues. Il tenore di Ammons trova piena affinità elettiva in Art Farmer, trombettista dal soffio solful, mentre il giovane altoista Jackie McLean, non perde occasione per liberare assoli che si dipanano come schegge di fuoco, dal canto loro il chitarrista Kenny Burrell, il pianista Mal Waldron, il bassista Doug Watkins e il batterista Art Taylor incantano nelle lunghe versioni di “Stella By Starlight”, e “Pint Size”, piccolo gioiello a tiratura limitata imperniato su tagli molto sincopati e funkified; in particolare Burrell aggiungendo il suo ricamo blues insanguta di melodia la splendida title-track “Funky”, ma il suo genio chitarristico emerge soprattutto nella narrazione del tema melodico della conclusiva “King Size”. Tutti, in particolare Burrell e Waldron ottengono un lasciapassare per lunghi assoli, mentre Ammons sembra davvero saper ispirare i suoi sidemen con un equilibrio ed un gioco di squadra, che produce una collegialità d’intenti da manuale. Disco facile ed immediato, adatto anche ai neofiti, Capolavoro ritrovato, senza sé e senza ma!