Pharoah Sanders – «Karma», 1969

// di Francesco Cataldo Verrina //

Pharaoh Sanders, venerato sassofonista jazz , è morto all’età di 81 anni. La notizia è stata confermata su Twitter dall’etichetta di Sanders, la Luaka Bop.

«Siamo sconvolti nel dover condividere la notizia del decesso di Pharoah Sanders », si legge nel comunicato dell’etichetta. «È morto serenamente circondato dalla famiglia e dagli amici a Los Angeles. Che possa riposare in pace».

Nato Farrell Sanders a Little Rock, in Arkansas, nel 1940, Sanders ha iniziato la sua carriera a Oakland, in California. Trasferitosi a New York negli anni ’60, cominciò a collaborare con Sun Ra, il quale gli diede il nome Pharoah, prima che il sassofonista diventasse uomo di punta nel line-up dell’ultimo John Coltrane;. Sanders suonò con Trane fino alla morte di quest’ultimo avvenuta nel 1967.

La musica di Pharoah Sanders è un luogo in cui ci si può perdere. È rumorosa e trascendente, scolpisce e colpisce l’universo sensoriale con vibrazioni tintinnanti e nevrotici groove intrisi di blues, messi a soqquadro dal suo marchio di fabbrica e dal suo modus operandi, attraverso lo starnazzare di un sax tenore calato negli abissi primordiali della coscienza. La sua musica sembra senza tempo e, spesso, le sue prolusioni durano più di venti minuti, ma sembrano oltrepassare l’idea comune dello spazio e del tempo. Per tutta questa estasi, e tale sconvolgimento sonoro, esiste soprattutto un contesto culturale radicato in uno specifico ambiente sociale e politico.

Nel corso di una lunga carriera, Pharoah Sanders ha plasmato il suo mondo sonoro introiettando i lamenti primordiali e l’energia feroce di John Coltrane, l’R&B martellante della sua giovinezza a Little Rock, i modi asiatici ed i groove africani, bilanciando dinamitarde improvvisazioni con suadenti ballate imperniate su una sublime semplicità. Albert Ayler disse: «Trane era il Padre, Pharoah era il Figlio, io ero lo Spirito Santo». Dal 1965 al 1967, Sanders è apparso in nove delle uscite Impulse! di Coltrane, compresi intramontabili capolavori come «Meditations» del 1965, fino ad «Expression», ultima registrazione in studio del suo maestro. Ha registrato più di trenta album come leader apportando un notevole contributo ad alcuni lavori di Alice Coltrane, Don Cherry e McCoy Tyner.

L’icona del free jazz di New York e dell’Arkansas ha avuto una specie di rito iniziatico nell’album «Ascension» di John Coltrane. Quell’album, forte di una lunga traccia di 40 minuti, segna il completo abbandono da parte di Trane del post-bop abdicando a forme espressive più libere ed aperte. L’interplay a cascata tra Coltrane e Sanders è stridente ma ancora attuale. La chiave per capirlo è considerarlo, però, un prodotto di un’epoca e di un luogo in particolare. La guerra del Vietnam si stava drammaticamente intensificando, le norme sociali dell’America del dopoguerra venivano rapidamente ribaltate e, cosa forse non secondaria, il movimento per i diritti civili andava in frantumi divenendo sempre più militante: Malcolm X era stato assassinato quattro mesi prima, mentre le Pantere Nere si sarebbero formate un anno dopo.

Pubblicato nel febbraio del 1969 per la Impulse!, «Karma» è il terzo album come band-leader di Pharoah Sanders, uomo di punta nell’ultimo assalto alla diligenza di Coltrane. Dotato di una tecnica non convenzionale e di un fraseggio aggressivo e tagliente, Sanders fu definito, in quell’anno da Ornette Coleman, come «il miglior sassofonista tenore in circolazione». L’album si basa essenzialmente su una lunga suite di oltre trentadue minuti, di cui la prima parte di diciannove minuti e venti secondi copre un’intera facciata dell’album. «The Creator Has A Master Plan» rappresenta una sorta di religiosità multietnica che si mischia ad echi pagani di africanismo, tra inferno, paradiso e misticismo psichedelico. La lunga traccia paga un tributo ispirativo, in molti frangenti, ad «A Love Supreme». In effetti condivide con il capolavoro di Trane, sia il forte senso di spiritualità, sia la ricerca di un essere supremo, attraverso cui l’uomo possa redimersi.

Determinante la presenza del cantante e coautore, il percussionista Leon Thomas, il quale intona mistici canti africani, facendo ricorso ad una tecnica usata dai Pigmei simile allo yodel. Sanders s’invola attraverso multifonie, a volte malinconiche, altre acute e pungenti, mentre le spinte curvilinee del sax tenore irrompono in piena libertà, man mano che si procede.

Nella seconda parte, che apre la B side per una durata di tredici minuti e trentasei secondi, il clima della suite si accende e le sonorità diventano violente e strappanti come colpi di scudiscio sui timpani, accompagnate dal delirio tremens delle tastiere di Lonnie Smith e dal forsennato incalzare delle percussioni. Dopo l’impervia corsa ad ostacoli la quiete arriva come dopo una tempesta e la voce di Thomas fa riaffiorare elementi di serenità ed armonia mistica. La stessa atmosfera pervade «Colors», impostato come una canzone, dove l’estasi ed il contatto con il sublime sembrerebbero raggiunti. «Karma» è un album seminale, immancabile nella collezione di chi ama il jazz a progressione asimmetrica e ricco di scosse telluriche.

Non si tratta di una musica nichilista, di un suono confusionario, di una propulsione caotica, della rabbia in una stanza buia o del tuffo in un abisso profondo e imponderabile. Coltrane era morto due anni prima e Sanders si sarebbe messo in proprio, diventando il leader di una band che utilizzava il modello sonoro forgiato dal suo mentore. Gli undici album pubblicati su Impulse! Records nel corso degli anni, a partire da «Tauhid» del 1966 fino a «Love In Us All» del 1974, restano una sorta di punto di riferimento per la storia del free e per ogni forma di espressione libera e non convenzionale nell’ambito del jazz che verrà.