// di Bounty Miller //
Pubblicato nel 1983 “Wayfarer” di Jan Garbarek Group non è un disco che impressiona per vitalità creativa, anzi a tratti si come ha la sensazione di rimanere intrappolati nel nulla, quindi dopo essersi liberati a fatica, si beneficia di alcuni momenti di piacere, per poi ripiombare in una dimensione angosciante. Oltre al sassofonista, il line-up si pregia della presenza di Bill Frisell alla chitarra, che non eccelle particolarmente, Eberhard Weber al basso e Michael Di Pasqua alle percussioni. È’ un album per anime inquiete e vaganti, avvolto da un’atmosfera cupa e cimiteriale. Le capacità compositive di Garbarek sono al minimo storico. Tutto sembra sospeso a mezz’aria e ciò che sembra annunciato, non arriva mai a compimento.
Già l’iniziale “Gesture”, più di 8 minuti declinati con un aplomb funerario, non trova mai il contatto con pathos, se non con la sofferenza e la soglia del dolore dell’ascoltatore. Se dovessimo scegliere un sostantivo per definire l’intera opera, potremmo parlare di “inespessività”, forse cercata dla sassofonista, una sorta di understatement che però non riesce a destare i sensi più di tanto, compromettendo perfino lo stato di veglia. Non mancano alcuni momenti particolarmente efficaci, come nella seconda traccia, la title-track “Wayfarer”, che significa viandante, in cui Garbarek si produce in un’ottima progressione, come se volesse liberarsi da qualcosa che lo opprime, proprio come un viandante che vaga senza una meta e sa che l’approdo è ancora lontano ed incerto.
Non è facile far scattare il coinvolgimento emotivo, soprattutto con la terza traccia “Gentle”, dove la melodia si trascina stancamente nonostante l’ottimo Weber cerci di dare profondità alle evoluzioni dei solisti e riuscire resuscitare un ibernato Frisell che mantiene un tono enigmatico avvolto in un mistero. Nonostante una buona modulazione, l’aria è quasi claustrofobica. “Pendulum” è un vortice dissonante, dove gli echi della chitarra distorta diventano a volte ipnotici, altri dispersivi e reiterati per il solo desiderio di dilatazione degli spazi da riempire: a tre quarti del tragitto, Garbarek da una scossa elettrica con un’ottima stratificazione in verticale, ma oltre oltre 10 minuti di vaghezza richiedono uno spirito di abnegazione e dedizione alla causa non comune.
“Spor” s’incammina lentamente alla ricerca di una dimensione , ma il “viandante” rischia di trasformarsi in “andante via”. “Singsong” prova con un velata punta d’orgoglio a risollevare le sorti di un album claudicante, facendo ricorso a giochi melodici ispirati da una cineseria. “Wayfarer” è uno di quei dischi che somigliano tanto ad una cena dei Lyons, dove ci si veste bene per mangiare male e quando si esce il senso di sazietà sembra appagato, ma non ci si ricorda neppure di ciò che si è mangiato. Consigliato ai viandanti jazz con molte ore di cammino nella tundra.
