// di Francesco Cataldo Verrina //

L’album “Sings Stormy Plays Monday” è uno dei capolavori di Lou Rawls realizzato con Les McCann , dove il portentoso cantante di colore ammannisce i mortali con alcune piccole perle di jazz cantato. Ma Rawls non è stato un personaggio facilmente circoscrivibile in un solo recinto musicale. Negli ultimi anni della sua vita, Lou Rawls, personaggio iconico della American Balck Music a tutto tondo, fu più volte al centro delle cronache mondane, per le sue turbolente relazioni amorose con attricette e soubrette di trenta o quarant’anni anni più giovani di lui: litigi, richieste di risarcimenti, denunce, avvocati, crack finanziari, evasione fiscale, storie di ordinaria follia sentimentale di un quasi settantenne in preda ad una seconda giovinezza.

Nella sua iperbole artistica c’è tutta l’essenza di personaggio vocalmente superdotato, con il sangue in ebollizione, dove coabitavano in maniera instabile swing, soul, blues e funk. Tali eventi mondani non scalfiscono minimamente la sua classe di interprete e compositore con oltre settanta album all’attivo, capace di passare indenne attraverso l’intera storia della musica afro-americana, riuscendo trovare in ogni epoca il giusto posizionamento: dal gospel al soul, dal jazz al funk, dalla disco all’easy-listening di gran classe. Un talento capace, addirittura, d’insidiare l’incontrastato primato di Frank Sinatra, vincendo un referendum quale miglior voce maschile, indetto della rivista Downbeat, e solitamente attribuito “The Voice”. Una bella definizione che gli calza a pennello, è proprio quella di “Frank Sinatra nero”, vuoi per la sua vocalità morbida e vellutata, sia per la sua capacità di interpretare “swinganti” ballate con una naturalezza ed una carica non comuni. Va da sé, che per un artista eclettico e dotato di un talento in perenne divenire, un sola definizione sarebbe esigua. Quella di Lou Rawls è stata, ai tempi della parentesi “Philly-Sound” anche la voce più bella della “soul-disco”. Per gli smemorati o i distratti, basterebbe un fugace ascolto o riascolto dell’intro parlata, un accenno di rap-ante-litteram, nell’indimenticabile “Let’s Clean Up The Ghetto” dei Philadelphia International All Stars del 1976, considerato uno dei classici di tutti i tempi nell’ambito del genere soul-funk

Lou Rawls nasce a Chicago, nel 1933. Come buona parte della gente di colore, comincia sin da bambino a cimentarsi con il gospel, divenendo membro del coro di una chiesa battista, a soli sette anni. Qualche tempo più tardi, assieme ad un suo compagno di liceo, tale Sam Cooke (non uno qualunque), fonda i Teenage Kings Of Harmony. Il primo disco, invece, risale al periodo legato ai Chosen Gospel Singers di Los Angeles. Nel 1955, dopo una breve esperienza con i Pilgrim Travelers, Rawls riceve la chiamata alle armi. Dopo tre anni di servizio militare e il grado di sergente sulle spalle, egli può nuovamente riprendere l’attività musicale. Proprio, durante una tournée con Sam Cooke e i Pilgrim Travelers, Lou Rawls viene coinvolto in un incidente automobilistico che lo lascia in fin di vita: l’autista muore, Cooke rimane leggermente ferito e Lou, durante la corsa all’ospedale, viene addirittura dichiarato morto. In realtà, il cantante era in coma e vi rimase per sei giorni, soffrendo poi di fortissime perdite di memoria. Ci volle un anno di ricovero, prima di poter raggiungere la completa guarigione. Il giorno in cui venne dimesso, in maniera quasi profetica, dichiaro: “Oggi, cominciò una nuova vita con una nuova anima!” Da lì a poco, un produttore della Capitol Records, impressionato dalla quella voce grave e profonda, gli propose un ottimo ingaggio, dopo averlo ascoltato al Pandora’s Box Coffee Shop di Los Angeles, dove il Nostro si esibiva per la misera cifra di dieci dollari a serata.

Firmato il contratto con la Capitol, diede alle stampe il disco del suo esordio come solista, “I’d Rather Drink Muddy Water”, il primo di una ventina di album che l’artista pubblicò nel decennio successivo: il più famoso dei dei quali fu “Love Is A Hurtin’ Thing” (1966), disco che gli fruttò due nomination ai Grammy Awards; nello stesso anno aprì il concerto dei Beatles al Crosley Field di Cincinnati. In questo periodo egli si unisce al novero di quegli artisti che gettarono le fondamenta per il moderno hip-hop, incidendo dei monologhi, una sorta di pezzi rap ante-litteram; uno di questi ,”Dead end street”, vince persino il Grammy Award per la miglior performance vocale rhythm’n’blues. Dopo un secondo Grammy ottenuto con “Natural man”, Lou Rawls capisce che nel mondo dell’R&B, il vento sta cambiando direzione. Senza pensarci due volte, con l’avvento della disco-soul nel 1974, sposa la causa della Philadelphia International, dove i produttori e compositori Kenny Gamble e Leon Huff stanno rimodulando il cosiddetto Philly Sound, al fine di renderlo più adatto alle nuove esigenze del mercato e delle piste da ballo: nel 1976, egli ottiene il maggior successo della sua carriera con “You’ll Never Find (Another Love Like Mine)” e l’album “All Things In Time”, mentre nel 1977 si aggiudica un terzo Grammy per l’album “Unmistakably Lou”.

All’attività di cantante Lou Rawls, soprattutto a partire dagli anni ’80, ha associato anche quella di attore, iniziando con alcune comparse in sit-comedy, telefilm e serie televisive, per finire con qualche “cameo” in un film da oscar come “Leaving Las Vegas” e in “Blues Brothers 2000”. Una nota curiosa: Lou Rawls ha lavorato perfino come doppiatore, fornendo la voce al mitico gatto Garfield. Il suo personale medagliere si compone di oltre una settantina di album, uno dei quali ha raggiunto il platino e cinque il dischi d’oro All’età di 72 anni, le Parche gli hanno, definitivamente, reciso il filo della vita, il 6 gennaio 2006 a Los Angeles, dopo una lunga lotta contro una grave forma di tumore ai polmoni. Agli amanti del jazz cantato, si consiglia di frugare fra i primi venti album della sua discografia, dove sarà possibile rinvenire dei veri gioielli di swing.