// di Francesco Cataldo Verrina //

Oggi J.D. Allen è considerato uno dei migliori sassofonisti al mondo; il plauso del pubblico e della critica lo sostengono da anni ed i riconoscimenti ricevuti sono molteplici, ma ascoltando i suoi più recenti album, gli ultimi due in particolare, in cui si muove con fare sapiente e calibrato da consumato professionista, ci si rende conto che la sua dimensione sonora si staglia su un costrutto molto più riflessivo e non possiede più i bollenti spiriti e i demoni coltraniani del giovane sassofonista al suo debutto come band-leader avvenuto nel 1999, quando aveva poco più di 26 anni.

Originario del Michigan, classe 1972, Allen aveva trovato subito calda accoglienza al suo arrivo sulla scena newyorkese, collaborando con illustri jazzisti come George Cables, Betty Carter, Ron Carter, Jack DeJohnette, Frank Foster, Butch Morris, David Murray e Wallace Roney. Fu, però, l’incontro con il trombettista italiano Fabio Morgera a spianargli la strada verso un brillante carriera. Fabio Morgera divenne il suo primo produttore, favorendone l’esordio discografico in casa Red Records con l’abum “In Search”. Lo stesso Morgera prese parte alla registrazione dell’album come secondo elemento del front-line con il sostegno di Eric Revis al basso e Rodney Green alla batteria e la partecipazione del pianista Shedrick Mitchel nelle tracce 1,4 e 7.

Fu una sorta di cross-playing, dato che J.D. Allen aveva contribuito all’album di Morgera dell’anno precedente, “Slick”, pubblicato sempre su Red Records. J.D. Allen si era formato sull’insegnamento ideale della scuola post-Coltrane, e lo dimostra per tutto l’album, esprimendo un tono roccioso e corposo e con una potenza di fuoco da far tremare i polsi ai grandi sassofonisti del passato; anche le doti di compositore sono ampiamente evidenti, fatta eccezione per “Lonely Woman” di Ornette Coleman, ciascuna delle partiture è farina del suo sacco. Tutti gli elaborati sonori non sembrano per nulla quelli di un debuttante, ma frutto di una penna matura e consumata.

“In Serch” mette subito in evidenza anche le caratteristiche di un giovane esecutore che, sia pure con determinazione e forte personalità, si dimena fra vari modelli ispirativi: molto vicino a Coltrane come impostazione di base, a volte un po’ Sonny Rollins con uno stato di eccitazione in più, attraverso un carosello di melodie e e ballate mid-range, talvolta soavemente oscillanti, talaltra più chiassose ed energiche; il suo stile compositivo ed esecutivo è un amalgama perfetto, fatto di brevi grappoli di note accatastati e lunghe linee melodiche, tanto da riportare alla mente Wayne Shorter. Registrato al 900 Studio di New York nell’agosto del 1998, “In Searrch” presenta subito le le sue ottime credenziali con l’iniziale “Jaya-Paul”, un’ariosa ballata post-bop segnata da un assolo angolare di Allen e da un accompagnamento quasi sbilenco al pianoforte da parte di Shedrick Mitchell.

Tutte le esecuzioni marciano con piede sicuro in un ambiente alquanto rilassato e consapevole dei propri mezzi. Il drumming di Rodney Green è deciso e ben calibrato, ma l’inera band fornisce una solida architettura sonora in tutti i pezzi, tra cui spiccano “Little Joe”, “Catch 22” e “Peebow’s Vibe”, escursioni sonore per le strade di una moderna metropoli. Fabio Morgera, su tromba e flicorno, diventa il partner ideale ed il deus ex machina sulle tracce ad andamento lento e sulle ballate come “Mudeeya” e “In Search of”. Questo è un disco che oltremodo ha una valenza storica, ossia il lancio di uno dei più importanti sassofonisti tenori contemporanei da parte di un’etichetta italiana. Da aggiungere alla vostra collezione jazz, senza esitazione alcuna.