// di Guido Michelone //

Chris McGregor nato a Somerset West (Sudafrica) il 24 dicembre 1936 e morto ad Agen (Francia) il 26 maggio 1990) resta tra i protagonisti assoluti della musica jazz, anche solo per il fatto che lui, afrikaan (ossia bianco africano nella repubblica razzista sudafricana) abbraccia la causa del jazz nero locale, abbandonando il proprio Paese alla fine degli anni ’60, quando la situazione dell’apartheid è ormai insostenibile con le musiche etniche (o simili) direttamente perseguitate: è arcinota la storia del disco Fredom (Now) Suite (1960) dell’americano Max Roach che il regime di Pretoria vieta non solo per i contenuti democratici, ma soprattutto per una copertina che provocatoriamente ritrae tre neri al bancone di un bar serviti da un cameriere bianco (situazione all’epoca inconcepibile anche in molte contee del su degli Stati Uniti).

Esule in Inghilterra McGregor pare simbolicamente riassumere i diversi momenti del jazz e della diaspora, insomma di una storia ultracentenaria che vede i musicisti americani, africani, asiatici, europei protagonisti,via via, lungo il XX secolo, di una nuova grande esperienza, il jazz ovvero il ritmo sincopato, il suono dove l’improvvisazione ha un ruolo fondamentale. Il jazz, si sa, nasce a New Orleans a fine Ottocento presso le comunità nere e creole, che suonano una musica a sua volta formatasi dagli ex schiavi africani, comunicando la loro identità razziale attraverso lo spiritual, il blues e il ragtime. Ma è solo con lo stile hot (dixieland) che si può iniziare a parlare di jazz con un immediato successo in quasi tutto il mondo, confermato anche dagli stili posteriori come lo swing e il bebop.

Con il bebop si parla già di jazz moderno e si entra nel terreno dell’attualità, anche se in questo caso il jazz del presente risale addirittura agli anni della seconda guerra mondiale. Da allora a oggi la linea moderna (detta appunto bebop) rimarrà sostanzialmente la stessa fino a oggi, pur con qualche radicale innovazione: e qui entra in gioco Chris e tutto il cosiddetto southafrican jazz, che è forse il primo esempio in assoluto di jazz africano dal punto di vista storico, al punto che il Sudafrica, colonia inglese, poi stato del Commonwealth (da cui si stacca nel 1965 per approvare il regime di apartheid che il Regno Unito chiaramente condanna) vanta una gloriosa storia di questi suoni, che Luigi Onori in un saggio importantissimo, Il jazz sudafricano, pubblica su «Musica Jazz» (dicembre 1997).

Lo studioso romano infatti scopre che discograficamente risalgono al 1930 con le prime incisioni del vaudeville africano di Griffiths Motsieloa, John Mavimbela, Ignatius Monare, effettuate però a Londra dalla Brunswick. Segue via via ciò che a tutti è noto come ‘african jazz’, ma che in realtà comprende già diverse commistioni tra lo swing, il gospel, il boogie e la musica locale, da cui prenderà spunto all’inizio degli anni Cinquanta Adolph Johannes Brand, detto Dollar (per le mance esigue), oggi noto con il nome musulmano di Abdullah Ibrahim: scoperto quasi per caso dal ‘Duca’ durante un concerto a Zurigo nel 1962, Dollar Brand diventa il maggior esponente nero del jazz sudafricano; e lo ancora, dagli anni Settanta a oggi, in periodi vissuti tra New York e Cape Town, con una poderosa discografia, per limitarsi al periodo del libro ha in African Space Program (1973) un grosso capolavoro.

Chris il pendant bianco di Brand e già due anni prima sfodera un altro album epocale per la nuova musica e per il southafrican jazz Brotherhood Of Breath (1971): l’album a distanza di anni resta forse, come emblematicità, il manifesto teorico e il risultato pratico dei Sudafricani in esilio in grado insomma di esprimere ad esempio un’ideale via di mezzo tra i Centipede di Keith Tippett e l’Art Ensemble Of Chicago grazie ad atmosfere sonore gioiosamente caotiche, con satirici assolo introduttivi, irridenti sortite individuali in dialettica al lavoro collettivo, ironizzanti segnali militareschi, fino a creare una singolare new thing dove ance e ottoni riescono anche a suonare parti scritte, inglobando persino citazioni dalla samba,dagli zulu, dalle orchestrine americane degli anni Cinquanta. Registrato a Londra nell’estate-autunno 1970 per la Ogun (poi ristampa Fledg’ling), Brotherhood Of Breath sarà anche il nome della band del pianista bianco sudafricano Chris McGregor negli anni successivi.

La musica ribelle di Brotherhood Of Breath comprende 20 allucinati minuti di Night Poem, con Chris allo xilofono e con le frasi dei fiatistiche a rincorrersi a catena, la congerie free The Bride (firmata da Pukwana), la ballad Davashe`s Dream (scritta da Mackay Davashe), la fanfara conclusiva Union Special, la danzante Andromeda (in assoluto il miglior pezzo). La band di McGregori qui, oltre i fidi partecipanti a “Very Urgent”, comprende i maestri del jazz britannico: Nick Evans e Malcolm Griffiths ai tromboni, Mark Charig e Harry Beckett alle trombe, Alan Skidmore, Mike Osborne e John Surman alle ance e, naturalmente, il grandissimo Harry Miller al contrabbasso.