Carl Burnett Quintet – “Plays Music Of Richard Rodgers”, 1980
Un personaggio quasi del tutto ignorato dalle cronache jazz, almeno in Italia, la terra dei cachi e dei soliti ignobili, il paese dei campanelli e dei cumparielli. Parliamo di Carl Burnett, batterista di vaglia con una lunga e rispettabile carriera a partire dagli anni i ’60 al fianco di importanti artisti jazz e non solo: da Eddie Harris e Sarah Vaughn, Marvin Gaye ed O.C. Smith, da Art Pepper e Freddie Hubbard a Horace Silver e Kenny Burrell.
Burnett iniziò a suonare la tromba ed il clarinetto già ad otto anni per poi passare, in età adolescenziale, alla batteria ed al vibrafono; fondamentali gli studi con Sam Browne alla Jefferson High School di Los Angeles, insieme ad illustri studenti quali Dexter Gordon o Chico Hamilton. Completato l’apprendimento, Burnett, insieme al compagno di studi Roy Ayers, diede vita ad una band di latin-jazz con cui cominciò ad esibirsi a livello territoriale; tra gli anni ’60 e ’70 divenne un sideman molto ricercato sulla costa occidentale: il suo lavoro alla batteria, nitido, elegante e swingante, ha abbellito ed arricchito innumerevoli esibizioni live o registrazioni in studio di gruppi e musicisti a vario titolo. Il primo passo decisivo, quale svolta nella carriera del batterista, fu l’adesione al Quintetto di Cal Tjader. Burnett fece la sua prima apparizione nel line-up di Tjader il 14 marzo 1966, durante un concerto a El Matador e vi rimase poco più di due anni, fino all’estate del 1968. “El Matador era la nostra base, con Cal”, ricorda Burnett. “andavamo in viaggio e stavamo via per un po’; quando tornavamo, ci riposavamo per una settimana, forse due, poi tornavamo a El Matador, e la gente diceva: Ehi, Cal è tornato, ed il posto era pieno ogni sera”.
Decisivo per la sua carriera fu anche l’incontro con Vince Guaraldi come racconta lo stesso Burnett durante un’intervista per il Keystone Korner di Kathy Sloane la quale, in “Portrait of a Jazz Club”, scrive che il batterista aveva una stanza in un posto chiamato Happy House, dove risiedevano numerosi musicisti jazz. “Vivevo ancora a Los Angeles”, spiega Burnett, “ma la Happy House era la mia casa quando ero a San Francisco. Avevamo un grande pianoforte nel soggiorno e ogni domenica facevamo delle jam session dove tutti suonavano. Era un posto meraviglioso da chiamare casa”. Burnett, in quel periodo, era un grande ammiratore di Guaraldi, lo aveva visto più volte insieme a Bola Sete, quando una sera, come ricorda il batterista: “Stavo lavorando con Cal, a El Matador. Vince veniva di tanto in tanto, si sedeva ed ascoltava, è lì che l’ho conosciuto. Faceva uno spettacolo dietro l’angolo a pochi passi da El Matador. La sera uscivamo insieme e ci divertivamo”.
Nel 1980 il batterista pubblicò su etichetta Discovery il suo primo ed unico album come band-leader: “Carl Burnett Quintet Plays Music Of Richard Rodgers”. Per questo unicum, registrato il 10 giugno 1980 in California al TTG Studio 2 di Los Angeles, la scelta ricadde su un repertorio che meglio rappresentava l’indole di Burnett e la storia della canzone americana. Le sue parole sono alquanto eloquenti: “Richard Rodgers non è stata una scelta priva di problemi. È stato difficile elaborare qualcosa di diverso su questi vecchi standard, ma il mio arrangiatore, Llew Matthews, ha sviluppato un lavoro notevole. Il fatto che Rodgers abbia influenzato un gran numero di musicisti jazz lungo la loro strada” sottolineava Burnett, “non del tutto casuale. È stata la musica di Richard Rodgers ad innescare in me un coinvolgimento totale con il jazz”. Che lo scaltro arrangiatore non volesse organizzare semplicemente un altro viaggio lungo il viale dei ricordi, ma muoversi su terreno più moderno e consono ai tempi (siamo nel 1980) è dimostrato dall’opener “I Have Dreamed”, imperniata su un tempo in levare, ma tutto l’album è un esempio di vivida e zampillante freschezza, giocato sulle essenze musicali del Pacifico spostato molto ad Est e per nulla nostalgico e soporifero.
Ottima fu la scelta dei collaboratori, assai compatibili con questa tipologia di progetto: George Cables piano, Eddie Harris sax alto, Bob Summers tromba e John Williams basso. La collaborazione di Burnett con Freddie Hubbard aveva stillato nel batterista un notevole interesse per per la tromba, tanto che a Summers fu concesso molto spazio come solista, in particolare in “You Are Too Beautiful”, dove il trombettista è presente per quasi in tutto il brano, ricreando certe atmosfere alla Clifford Brown; dal canto suo Cables si mostra in forma smagliante sviluppando fantasiosi assoli in corsa che ricordano un Art Tatum con idee più moderne, capace di esplorare ogni sfumatura, ogni angolo o anfratto delle melodia, senza mai perderne le coordinate per un solo istante. Gli arrangiamenti, specialmente nei tempi più veloci, fanno riferimento allo stile dei Jazz Messengers di Art Blakey. “I Messengers sono stati i principali punti fermi dei miei primi ascolti jazz”, confermò Llew Matthews. Addirittura l’arrangiatore in “Spring Is Here”, riesce a creare l’effetto di una big band con soli cinque strumenti a disposizione, dove primeggia il sax alto di Eddie Harris, il quale si esprime attraverso una timbro puro e cristallino, così come in “It Never Entered My Mind”, la singolare qualità timbrica e la capacità di coinvolgimento emotivo di Harris diventano il motore mobile dell’ensemble.
Uno dei climax dell’album è “Bewitched”, una composizione di Rodgers poco utilizzato in ambito jazzistico. In questo salone di bellezza, il classico componimento viene latinizzato, truccato e rinvigorito attraverso un’impostazione ritmica che mette in risalto l’abilità percussiva di Burnett. L’arrangiamento, il più complesso fra tutti e sette, è teso a portare il leader in primo piano, il quale ha, però, la scaltrezza di non monopolizzare mai le luci della ribalta a discapito dei sodali. Il modo di suonare di Burnett è sempre evidente in tutto costrutto, la ritmica è un asset importante ed un asse portante, ma ciascuno dei membri del line-up è un leader a pieno titolo, o ne ha il potenziale. Ma non c’è nessuna messa in scena a vantaggio di chicchessia, ma solo un senso di empatia e compensazione reciproca. C’è grande rispetto non solo l’uno per l’altro, ma anche per il tempio sonoro che stanno attraversando: nessuno di essi intende profanare la sacralità della liturgia di Rodgers più di tanto.
A suggello dell’album, “The Sweetest Sounds” che diventa un veicolo per lo splendido walkng-bass di Williams, audace, intrepido, ma preciso e con un innato senso del tempo e della posizione, tanto da fornire un perfetto cuscino agli assoli di Harris e Summers, controbilanciando la batteria di Burnett. “Carl Burnett Quintet Plays Music Of Richard Rodgers” è un disco sfuggito al controllo dei radar, ma è un piccolo gioiello nato sotto una confluenza astrale favorevole: non c’è ostentazione tecnica, virtuosismo di maniera, ogni cosa è a suo posto, quasi una tempesta perfetta di suoni. Se questo album fosse stato concepito nei tardi anni ’50, e magari pubblicato dalla Verve o dalla Impulse!, sarebbe passato alla storia del jazz. Geniale soprattutto l’arrangiatore Llew Matthews, che pur operando su partiture classiche ed in contesto apparentemente West Coast, che avrebbe potuto liquefare il tutto in una melassa dolciastra e diabetica, fu capace di strutturare un set che suona in parte alla Art Blakey ed in parte alla Horace Silver, con qualche accenno al miglior Freddie Hubbard della blue Note. Chissà se l’intraprendente Carl Burnett, quel giorno, avesse potuto mai immaginare che non avrebbe più fatto un album come band-leader?
