Thelonious Monk Quartet – «Live in Tokyo», 1963
Nella storia della musica contemporanea, non solo jazz, il Giappone è sempre riuscito a tirar fuori da ogni musicista o gruppo il meglio di sé. Accadde così anche con il quartetto di Monk, soprattutto perché i Nipponici si erano mostrati sistematicamente più ricettivi alla sua musica rispetto agli occidentali. Quando il pianista si esibì nella terra del sollevante era al climax della popolarità e, forse, stava vivendo uno dei momenti migliori della propria esistenza sul piano finanziario, ma anche personale e familiare. L’armonia con i suoi collaboratori regnava sovrana. Era il 21 maggio 1963 quando il quartetto, durante il primo tour asiatico, varco la soglia della Sankei Hall di Tokyo, ammendo il pubblico pagante con una manciata di classici del repertorio monkiano unitamente ad alcuni standard. Il pianista era reduce da un lungo tour europeo: ben dodici concerti in diciassette giorni che, nel marzo dello stesso anno, l’avevano portato a Francoforte, Amburgo, Baden-Baden, Monaco, Berlino, Brema, Düsseldorf, Stoccolma, Copenaghen, Helsinki, Parigi e Bruxelles.
I sostenitori tokyoti sembravano sedotti dal fascino della musica del Monaco, mostrandosi caldi e reattivi. Ascoltando il disco, Monk in particolare risulta in perfetta sintonia con il pubblico offrendo una serie di interpretazioni impeccabili, attraverso una gamma completa di ritmi e di avventurose escursioni melodiche. Il pianista appare sicuro di sé, senza discontinuità alcuna: il periodo era alquanto fertile e propizio alla sua musica, che dopo anni di incomprensioni stava respirando a pieni polmoni l’ebrezza della notorietà e del riconoscimento internazionale. Su «Monk In Tokyo» i sodali seguono l’intrigante e coinvolgente processo creativo del band-leader, eccentrico ed imprevedibile come al solito, ma dove tutto risulta in ordine e ben incastrato, tanto da dissipare i dubbi perfino degli ascoltatori più diffidenti e lontani dalla galassia monkiana, ma soprattutto dietro al «grande uomo», Charlie Rouse al sax tenore, Butch Warren al basso e Frankie Dunlop alla batteria forniscono un supporto solido e concreto.
Nel momento in cui questo doppio album apparve sugli scaffali dei negozi, il Monaco Blu era quasi scomparso dalla scena ed i suoi concerti sembravano un lontano ricordo, nonostante gli innumerevoli tentativi da parte di vari manager, organizzatori di festival e proprietari di club avessero tentato di strapparlo all’isolamento casalingo, dove il genio andava consumando gli ultimi anni di vita in una specie di distacco dalla realtà, muto ed immobile davanti ad un televisore,
Il tour del 1963 con relative tappe in Giappone, dove il pianista si trattenne per due settimane suonando tutti i giorni, e l’album risultante si basarono sugli stessi vecchi standard monkiani eseguiti in uno stato di grazia, tra cui «I’m Gettin’ Sentimental Over You», «Blue Monk», «Epistrophy» e «Bemsha Swing», ma sempre riproposti in maniera adattiva alla cornice o alle esigenze del momento. Nello specifico alcuni brani vennero proposti in versioni molto più lunghe del solito.
In apertura c’è una reinterpretazione di quasi dieci minuti di «Straight, No Chaser», seguita da «Pannonica» che cede il passo ad una magnifica performance per solo pianoforte della popolarissima «Just A Gigolo», eseguita in scioltezza e con ampia disinvoltura, quindi «Evidence» e «Jackie-ing». A questo punto della sua carriera, la produzione di Monk risultava estremamente coerente e collaudata e nulla poteva distoglierla da certe caratterizzazioni.
In «Monk In Tokyo», doppio album della durata di ottantuno minuti, ci sono poche sorprese, forse nessuna rispetto al modus operandi di quel quartetto, ma solo un gioco di ruolo ben collaudato con ottime performance di gruppo ed individuali. Apparentemente una serata di routine per il tenorista Charlie Rouse, che comunque scodella in una delle sue pietanze più probanti, ma Monk sembra rinvigorito dall’ambiente accogliente e da una platea che risponde alle continue sollecitazioni della band: il basso di Butch Warren è sempre fedele alla linea, mentre il batterista Frankie Dunlop, dalle retrovie, non perde mai la bussola del tempo. Il brand monkiano e le sue egocentriche composizioni sono pienamente evidenziate.
C’erano già molti dischi di Monk dal vivo disponibili sul mercato, per questo motivo «Live in Tokyo», che costituisce un documento storico di prim’ordine, venne preso sottogamba ed originariamente distribuito semplicemente in una costosa edizione giapponese per collezionisti. La Columbia lo pubblicò soltanto nel 1969 attraverso due album separati e, nel 1973, la ristampò su un doppio LP, destinandone la diffusione al mercato nipponico. Solo nel 1983 la casa discografica decise di proporlo anche negli Stati Uniti ed in Europa con il titolo «Tokyo Concerts». Seguiranno ulteriori ristampe in CD fino all’edizione definitiva apparsa per la prima volta in USA nel 2001.
