// di Francesco Cataldo Verrina //
«Miles & Monk At Newport» fu essenzialmente una trovata pubblicitaria ed apparentemente ingannevole: al primo impatto con la copertina del disco si potrebbe pensare che Thelonious e Miles si fossero esibiti inseme durante la kermesse di George Wein. In verità, la Columbia accorpò nello stesso album, uno per facciata, il set di Miles Davis risalente al Newport del 1958 e quello di Monk del 1963. L’unico vero punto di contatto tra le due performance è rappresentato da una robusta versione della monkiana «Straight No Chaser» della durata di oltre otto minuti, eseguita da Davis accompagnato da John Coltrane al sax tenore, Julian Cannonball Adderley al sax contralto, Bill Evans al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria.
Le registrazioni del trombettista costituiscono l’ossatura del primo lato, mentre le tracce del pianista coprono la seconda facciata del disco, la cui unica funzione potrebbe essere quella di consentire un confronto fra due personalità del jazz, quasi antitetiche, soprattutto su come essi riuscissero a plasmare i musicisti che li accompagnavano, facendoli aderire perfettamente al loro costrutto sonoro. Peccato che le due esibizioni rappresentino momenti assai lontani nell’evoluzione del bop, dove cinque anni di distanza costituiscono uno spazio siderale.
Nel ’58 Miles Davis stava raccogliendo i cocci di una vita disordinata e si preparava a sferrare un altro assalto alla diligenza del jazz. L’anno successivo avrebbe dato alle stampe il seminale «Kind oF Blue»; mentre nel ’63 il Monaco, uscito dalla zona d’ombra, stava vivendo uno dei momenti più intensi e gratificanti della sua carriera. Quella di Davis è una formazione quasi all star con una prima linea a tre punte, dove Coltrane ed Adderley si cimentano entrambi in alcune esecuzioni energiche e prorompenti, attraverso un approccio muscolare e spavaldo, specie in «Ah-Leu-Cha» di Charlie Parker e «Two Bass Hit» di Dizzy Gillespie. Nel lato davisiano c’e perfino spazio per qualche momento più rilassato con un’intrigante versione di «Fran-Dance», brano composto dallo stesso Miles.
Il modus operandi del pianista risulta assai diverso. Egli non intende sconvolgere la platea, soprattutto non ha niente da dimostrare e non cerca di strafare, ma solo di intrattenere. Monk è sul palco nella sua solita dimensione istrionica e sciorina una collaudata formula musicale, supportato da Pee Wee Russell al clarinetto, Charlie Rouse al sassofono tenore, Butch Warren al contrabbasso e Frankie Dunlop alla batteria. Puntando i riflettori sui lunghi che vedono in prima fila Russell e Rouse il contrasto tra il loro approccio e quello di Coltrane e Adderley è rimbalzante. I sodali di Davis, trascinati da una mentalità da lottatori, sembrano occupati a tirare fuori l’anima da ogni frase di otto battute su cui riescano a mettere le mani, mentre sul versante monkish, Russell in particolare si attarda girovagando tra melodici licks old time che sarebbero stati molto più di casa in uno live-show di Benny Goodman.
Quando Monk risponde alle nostalgiche inclinazioni di Russell si percepisce una sensazione di complicità ed un piacevole ritorno al passato per entrambi. Sembrerebbe che i due si stiano divertendo a far riemergere lontani ricordi e vecchie atmosfere. La predica del Monaco si compone di sole due lunghe parabole: «Nutty» che supera i tredici minuti e «Blue Monk» che va oltre gli undici, dilatando il campo d’indagine e di sviluppo di tutta la band, che risulta essenzialmente intenzionata a comunicare buon umore, attraverso un garbato e preciso interplay.
Per intenderci la porzione davisiana è simile ad poker con rilancio, mentre quella monkiana ad una meditativa scala quaranta. Due partite giocate sullo stesso tavolo, ma in differenti epoche e con opposte combinazioni di colori diverse regole d’ingaggio. La sensazione è anche quella si un abito indossato al contrario, dove il concerto davisiano del 1958 costituisce l’elemento di novità e di sorpresa, muovendosi su un binario alta velocità e con il baricentro spostato in avanti, rispetto all’assetto monkiano del 1963 più retrospettivo e teso alla conservazione di uno stile rodato e sicuro.
La personalità dei due band-leader emerge proprio nella differente impostazione e nella capacità di coinvolgere completamente i membri delle due compagini. «Miles & Monk At Newport» è un album concepito a tavolino che non nasconde le sue precise finalità commerciali, ma costituisce un valido documento storico, tra le cui righe è possibile leggere alcuni tratti evolutivi della musica di Davis e Monk, accomunati dall’essere ambedue depositari di una genialità non clonabile, ma separati in casa dalla Columbia.
