Miles Davis – «Miles In The Sky», 1968

// di Francesco Cataldo Verrina //

Il «nomadismo» creativo di Miles Davis è alquanto acclarato con documenti consegnati agli atti e alla storia. L’inquieto trombettista si è sempre spostato da una terra di confine all’altra, anche quando potrebbe sembrare più ortodosso e stanziale rispetto ai dettami del bop. In fondo Miles Davis, come certi pastori erranti, ha sempre cercato i pascoli migliori su cui portare il suo gregge. Bisogna distinguere, paradossalmente, tra un Davis di «transumanza», che fa avanti ed indietro e spesso ritorna all’ovile originario, ed un Davis di «transizione», deciso a spostarsi definitivamente in un altro territorio.

«Miles In The Sky» va certamente considerato un piccolo capolavoro sotto taluni aspetti; diversamente potrebbe apparire un disco transumante, non omogeneo, indeciso nel tratturo da seguire ed appena transitorio: per la prima volta, in un disco del trombettista, fecero capolino strumenti elettrici, opzione che sarà successivamente implementata con gli album successivi: «Filles de Kilimanjaro», «In a Silent Way» e «Bitches Brew», che segnerà lo strappo definitivo con il jazz acustico ed il passaggio ad un’inedita dimensione sonora. Se «Miles In The Sky» viene considerato come la continuazione della formula espressa dal «second great quintet» nei precedenti lavori, quali «E.S.P.», «Miles Smiles», «Sorcerer» e «Nefertiti», allora rimarrà sempre un disco minore, un riempitivo all’interno della fiorente produzione davisiana.

Per questo errore di fondo, parte della critica non ha mai dato particolare rilievo al disco, che rimane anche alquanto sconosciuto presso l’ascoltatore medio, ad eccezione dei collezionisti e dei completisti della discografia di Davis; senza contare che «Miles In The Sky» nasce dall’affiatamento e dalla collaborazione di una delle compagini più influenti della storia del jazz moderno: Miles Davis, Tromba; Wayne Shorter sax tenore; Herbie Hancock piano e pianoforte elettrico in «Stuff»; Ron Carter contrabbasso e basso elettrico in «Stuff»; Tony Williams batteria, con l’aggiunta di George Benson alla chitarra elettrica in «Paraphernalia». Per una più serena valutazione, l’album andrebbe stralciato dal resto e valutato isolatamente: è diverso dagli album precedenti e distante dai successivi, si capisce che Miles e compagni avevano voglia di debordare dal recipiente del jazz acustico, che risultava stretto, soprattutto per la temperatura del jazz in quel periodo cominciava ribollire di nuove istanze e stimoli creativi provenienti da ogni dove, ma – come già specificato – non può essere compiutamente considerato un album di transizione, soprattutto come molti lavori posizionati in una terra di confine, fa scaturire sensazioni intriganti e frustranti al contempo.

Si potrebbe dire in maniera sintetica, al netto della quantità di acustico o di elettrico, che «Miles In The Sky» sia meno swing e molto più funk-groove rispetto ai suoi predecessori. George Benson, che suona la chitarra elettrica in tale contesto, è poco più di un «effettista» e la sua presenza non fu certo determinante. Per contro, si possono intravedere i semi di ciò che sarebbe accaduto dopo, seguendo il principio che Miles stava sperimentando differenti soluzioni sonore e valutando l’uso di moderne strumentazioni, proiettandosi verso un imminente cambiamento: le sue parole sono alquanto eloquenti: «Volevo sentire la linea di basso un po’ più forte. Se riesci a sentire la linea di basso, allora riesci a sentire ogni nota della musica che suoni. Così ci mettemmo a modificare la linea di basso nei pezzi che suonavamo: la variammo. Se io scrivevo una linea di basso, potevamo modificarla tanto da avere un suono un po’ più ampio di quello classico di un quintetto: usando un piano elettrico e facendo suonare ad Herbie la linea di basso e gli accordi assieme alla chitarra mentre Ron Carter gli andava dietro nello stesso registro, sentivo che la musica avrebbe avuto un bel suono fresco. E fu così! Quando registrammo con questo tipo di impostazioni, stavo muovendomi verso quello che i critici più tardi definirono fusion. Stavo provando un approccio nuovo, più fresco».

Analizzando bene, ci si accorge che Miles Davis non fatto mai due album perfettamente uguali, c’era sempre un divorante desiderio di espandere la tavolozza sonora della sua musica e di oltrepassare le regole d’ingaggio più tradizionali. Volere o volare, Miles Davis è sempre stato il punto di partenza di molte rivoluzioni operate all’interno del linguaggio jazzistico: a differenza di altri, anche nei momenti difficili, ha sempre guardato avanti. «Miles In The Sky» fu anche l’ultimo album completo registrato dal «secondo grande quintetto». Nella sua forma originale in vinile conteneva solo quattro lunghe tracce, nel CD sono state aggiunte due tracce alternative: «Black Comedy» e «Country Son» richiamavano i suoni acustici, al contrario in «Stuff» prendono il posto dei strumenti tradizionali; tale sperimentazione paga chiaramente, perché «Stuff» è un gioiello ante-litteram di funk-fusion, le cui intuizioni saranno sfruttate nei decenni successivi. Con il suo incipit cadenzato e scorrevole «Stuff« dove, con il basso di Ron Carter perfettamente in linea e la batteria di Tony Williams che ne esalta le caratteristiche di «ambienza» moderna, si spalancano anzitempo le porte sugli anni Settanta. Larry Kart su DownBeat scrisse: «Per questo disco Davis ha preso qualche ispirazione degli anni precedenti e reso più cupa la sua espressione».

Il modo in cui apre «Country Boy» ricorda un frammento del suo assolo in «Summertime» da «Porgy and Bess», ma la veemenza con cui viene eseguito si pone agli antipodi rispetto all’intensità che pervade la sua interpretazione del classico di Gershwin. Persino in «Black Comedy», brano in cui Miles esegue il suo assolo più brillante e fantasioso, gli ordinatissimi schemi del passato vengono ignorati e frammentati. L’apporto del sassofono di Wayne Shorter risulta sempre non convenzionale ma preciso, così come la chitarra (per la prima volta usata in un disco di Davis) di Geoge Benson in «Paraphernalia« appare assai contenuta, sobria e moderata: più che a Jimi Hendrix fa pensare a Wes Montgomery. Per contro, l’abbrivio sparato di Davis in «Country Son«, lascia presagire che il trombettista stesse guardando oltre l’orizzonte del jazz intravedendo possibilità di contaminazione con il rock; il fraseggiare della tromba è meno lirico, più spezzato e frammentario, rude, acidulo e fortemente esposto alle radiazioni esterne. Una finestra sul futuro si era comunque aperta, nonostante Davis non fosse ancora saltato giù; finanche la copertina evoca suggestioni futuristiche e policromatiche.

Registrato il 16 gennaio ed il 15 e 17 maggio del 1968 con la produzione di Bob Thiele, «Miles In The Sky» resta un album memorabile, pur nella sua architettura tradizionale, già debordante e piena di promesse (e premesse), già elettricamente invasato, ma ancora fedele al core-business del quintetto degli anni ’60. Tutti i brani di «Miles in the Sky» rivelano vivacità, energia inventiva ed una varietà di sfumature che confermano ancora l’intuito davisiano e l’abilità di quell’insuperato quintetto.