Lee Morgan – “The Last Session”, 1972

// di Guido Michelone //

C’è un disco intitolato Lee Morgan The Last Session uscito nel maggio 1972, ma edito postumo a qualche mese dalla tragica scomparsa di uno dei grandi trombettisti jazz di tutti i tempi: Edward Lee Morgan, nato a Philadelphia il 10 luglio 1938 viene ucciso il 19 febbraio 1972 con un colpo di pistola, sparato dalla moglie alla fine di un concerto allo Slugs’ Saloon, dopo un’animata discussione: il protettile non ammazza subito il jazzman, che però decede sull’ambulanza per via di soccorso in ritardo, insomma reso lento e faticoso ad un’abbondante nevicata che rende le strade della città quasi inagibili anche per ogni tipo di auto. Lee Morgan The Last Session viene inciso come sempre al Van Gelder Studio a Englewood Cliffs nel New Jersey tra il 17 e il 18 settembre 1971.

Il doppio vinile – noto anche come Lee Morgan Album – comprende solo cinque brani di cui tre su ogni facciata (Capra Black di Billy Harper, In What Direction Are You Headed? di Harold Mabern, Inner Passions Out di Freddie Waits, rispettivamente lati A, B e D, mediamente di un quarto d’ora ciascuno), mentre i due Angela di Jymie Merritt e Ballet di Billy Harper appartengono al lato C. Non si tratta dell’album migliore di un trombettista – hard bopper impenitente – già emerso alla fine dei Fifties in dischi altrui e poi esploso negli anni ’60 (benché l’attenzione degli studiosi verso il nuovo coevo free jazz ne oscuri la fama e ne ostacoli il successo di critica) però Lee Morgan The Last Session indica forse le nuove strade che egli avrebbe potuto intraprendere sul piano musicale con il progressivo abbandono dello stesso hard bop a favore sia di un sound elettrico sia dei richiami avanguardiste; e oltretutto, si tratta anche di uno degli ultimi grandi dischi dell’etichetta Blue Note che risorgerà solo un ventennio dopo, ma che in quell’inizio di Seventies è preoccupata di accondiscendere al grosso pubblico, favorendo una propria versione di jazzrock più funky e soul, come si evince anche dagli otto importanti strumentisti coinvolti Lee Morgan (tromba e flicorno), Grachan Moncur III (trombone), Billy Harper (sax tenore e flauto alto) Bobbi Humphrey (flauto), Harold Mabern (pianoforte e piano elettrico), Jymie Merritt (basso elettrico), Reggie Workman (contrabbasso e percussioni), Freddie Waits (batteria ed effetti).

Cosa avrebbe fatto Morgan, se la moglie non gli avesse sparato? Avrebbe abbracciato la causa del jazzrock come Miles Davis? O dello smooth jazz come tanti hard bopper passati all’etichetta CTI? O qualche altra diavoleria? Non ci sono risposte a domande forse prive di senso. Ciò che invece si può ricordare di Lee come artefice di un nuovo jazz dei primissimi anni ’70 è il coraggio di andare oltre i facili schematismi e soprattutto continuare a tentare una terza via rispetto ai principali dualismi del trombettismo jazz. Morgan, appunto va oltre la dicotomia all’epoca rappresentata da Miles Davis e Chet Baker da un lato, Don Cherry e Bill Dixon dall’altro, recuperando una linea hot che inizia adidirttuyra con Jabbo Smith e Buck Clayton (per Giorgio Lombardi ad esempio ritenuti addirittura superiori ad Armstrong a fine carriera), per arrivare, attraverso Roy Eldridge e Dizzy Gillespie, all’hard bop di Kenny Dorham e Clifford Brown.

Il Morgan dei primi Seventies insomma ispira anche molta critica europea ad andare controcorrente nel senso di riconsiderare il conformismo di molti jazzisti del Vecchio Continente che cantano o suonano ‘alla maniera di’ Sarah Vaughan, John Coltrane, Bill Evans, senza mai guardare indietro o in contemporanea ad ulteriori artisti interessantissimi, a partire dal suddetto Lee, il quale indirettamente è un esempio per tutti del modo in cui occorrerebbe swingare nel solco di Dorham, Brown, Gillespie, Eldrige, Clayton, Smith e ovviamente Armstrong.