// di Guido MIchelone //

Nella storia delle musica degli anni ’70 in ogni nazione del mondo intero si trovano importanti protagonisti locali: a emergere però, per questioni di mercato internazionale, sul piano discografico e concertistico, sono, come nei due decenni precedenti, gli artisti statunitensi e britannici, che in ambito pop, rock, folk,jazz hanno il sopravvento sui altre realtà magari blasonatissime dal punto di vista delle tradizioni classiche. Infatti la musica colta fa eccezione al predominio angloamericano nel senso che compositori e interpreti, solisti e orchestre arrivano da ogni angolo del Pianeta a garantire qualità,cultura, evoluzione.

Anche il jazz, proprio durante i Seventies, va oltre la direttiva americana (e soprattutto afroamericana) per tingersi di nuovi colori ad esempio sudafricani (Chris McGregor), argentini (Gato Barbieri), brasiliani (Eumir Deodato), francesi (Henri Texier), italo-greci (Demetrio Stratos), anglo-indiani (Shakti), italiani (Gaslini), tedesco-americani (Trilogue) o euro-tedeschi come nel caso di questa Gobe Unity Orchestra. La big band radunata dal critico e produttore Joacquin E.Berendt già nel 1966 per l’omonimo progetto Globe Unity, in realtà prende forma, sotto la guida del pianista Alex Von Schlippenbach – che per l’orchestra scrive, dirige, arrangia – nel 1973 quando esordisce con la registrazione su disco del primo importante appuntamento concertistico:-

In effetti Live in Wuppertal (edito da FMP) è forse il capolavoro assoluto della nuova musica tedesca e di certo di tutta la cosiddetta frei musik, ovvero il pendant ancor più radicale del free jazz afroamericano: l’orchestrona di tredici elementi (praticamente i migliori d’Europa in quest’ambito) diretta dal pianista berlinese esegue una suite furiosa (Maniacs, tutta sul lato B del vinile) e sei brevi improvvisazioni tra cui un ironico Wolwerine Blues di Jelly Roll Morton d’apertura e la militante Solidaritatslied di Hans Eisler nel finale del lato A, insomma la forza pura e l’intima spiritualità del brutalismo sonoro, che viene contrappuntata dalla citazione del mitizzante jazz arcano e dalla canzone militante prehitleriana, senza nulla togliere ai restanti cinque brani Payan, Bollocks, Yarrak, Bavarian Calypso, Out Of Burton Songbook (sempre tutti abbastanza corti, al massimo 5 minuti).

Si tratta di un disco d’esordio di grande responsabilità per questa super formazione europea, alle prime armi, anche se c’è, come già detto, un diretto precedente nel senso che Globe Unity è il titolo dell’album del 1967 con il quale esordisce Schlippenbach, radunando i migliori talenti del free dalla Germania ovviamente, ma anche da Olanda, Inghilterra, Belgio, Canada): si tratta dunque di una grossa formazione di ricerca sonora che, da allora a oggi, si riunisce solo sporadicamente, nonostante gli eccellenti risultati ogni volta conseguiti. Globe Unity andrebbe definita come orchestra jazz in senso lato e più che una big band di impostazione classica (nel senso di swing o mainstream), oltre poter essere indicata quale all stars di ottimi performer di una musica sperimentale e di un jazz ultra-avanguardista, che in Germania (e in Europa) ganno critici pronti a etichettare questi suoni via via come free music, creative music, free improvisation o improvised sound.

La Globe Unity Orchestra, a cominciare da questo notevolissimo atto dal vivo, durante un celebre festival di nuove tendenze, riesce a fare della ricerca/provocazione il proprio vessillo, sia artistico sia ideologico, ponendosi altresì come risposta europea all’americana Jazz Composers Orchestra Association: entrambe condividono la voglia di sperimentare, ma la Globe Unity presenta anche un discorso citazionistico, uno humour raffinato, un radicalismo esasperante. Le presenze forti garantiscono da un lato un’ironica rilettura del passato novecentesco, dall’altro un tuffo a capofitto su rumorismi dadaisticheggianti. Riascoltata oggi, la Globe Unity Orchestra resta una emblematica testimonianza