DEXTER GORDON – «OUR MAN IN PARIS», 1963
// di Francesco Cataldo Verrina //
Sin dal primo ascolto, «Our Man In Paris» si caratterizza come una tempesta perfetta di suoni, uno di quei dischi capaci di mettere d’accordo tutti, in grado di avvicinare al jazz a chiunque sfatando i classici luoghi comuni, come la difficile comprensione di un genere ritenuto elitario o la necessità di un lungo apprendistato per poterne capire concetti e sfumature. Ciononostante, non è solo un album per neofiti o per turisti occasionali del jazz ascoltato in casa di amici. Sin dalle prime battute sembrerebbe che Gordon voglia far esplodere lo strumento, mentre ammassa fiotti di energia nel sua progressione melodica, rendendo omaggio ai miti del passato, ma con un concept sonoro proiettato nel futuro. In ogni singolo brano, la voce del sax, il fraseggio, la selezione delle note e la strutturazione degli assoli sfruttano tutto il potenziale emotivo ed inventivo del sassofonista, riportandone in auge la tempra guerresca.
Questo fu il primo lavoro europeo di Gordon per la Blue Note, probabilmente il più riuscito di tutta la serie prodotta per l’etichetta. I primi quattro dischi, «Doin’ Alright», «Dexter Calling», «Go!» e «A Swingin’ Affair», erano stati realizzati tra il 1960 ed il 1962 negli Stati Uniti con un cast in massima parte costituito da giovani discepoli del post-bop. Nello specifico «Go!», il cui titolo strizzava l’occhio alla beat generation facendo riferimento al romanzo di John Clellon Holmes, aveva ottenuto il maggiore riscontro in termini commerciali; per contro «Our Man in Paris» fu l’album con più tratti distintivi rispetto all’impostazione tipica dell’opificio di Alfred Lion, se non altro per la composizione del line-up, portatore sano di cinque standard a base di bop integrale, senza tentativi di commistione o fughe dal tracciato. Nonostante l’outsider, Pierre Michelot al basso, che aveva comunque suonato con Coleman Hawkins, Lester Young e Don Byas, «Our Man In Paris» riconfermò le doti di Gordon, affiancato da due sodali di spessore, Bud Powell al pianoforte e Kenny Clarke alla batteria, entrambi esuli in terra in terra straniera. Da non sottovalutare il fatto che, dopo il suo arrivo in Francia nel ’59, Bud Powell, Kenny Clarke e Pierre Michelot si erano uniti per dare vita ai The Three Bosses. Con quasi cinque anni di esperienza come gruppo alle spalle, i tre veterani garantirono a Gordon un rodato supporto.
Il 23 maggio del 1963 il quartetto varcò i CBS Studios di Parigi per fissare su nastro uno degli album più seducenti della grande epopea bop. Pur non avendo mai spinto oltre i moduli convenzionali il suo metodo compositivo o l’approccio allo strumento, come avevano fatto John Coltrane o Sonny Rollins, Gordon possedeva un lirismo unico ed una potenza non comune che riusciva ad alternare in maniera spettacolare in tutti suoi dischi, come una magica pozione servita attraverso una piacevole miscela agro-dolce. Il suo genio melodico esce subito dalla lampada in «Scrapple From the Apple» di Charlie Parker, l’opener dell’album, uno energico shuffle carico d’intensità percussiva, dove il sassofonista di Los Angeles si fa strada attraverso linee ariose e complesse, mentre la sezione ritmica gli resta incollata alle calcagna, in particolare Powell protagonista di una spettacolare interazione sax-pianoforte; il pianista, a tre quarti del percorso, darà sostanza al brano con un vertiginoso assolo da enciclopedia del jazz. Dopo oltre sette minuti di lotta senza quartiere, il brusco cambio di passo, che porta alla successiva «Willow Weep for Me», non produce alcun turbamento negli esecutori come nei fruitori. Il tema è particolarmente sensuale ed il groove più moderato, tanto da garantire a Gordon un’altra opportunità per stupire l’ascoltatore con il suo tono lussureggiante e le melodie intrise nel miele.
Il lato B è un piccolo prontuario hard bop a presa rapida, capace di colmare i vuoti e gli anfratti di composizioni in apparenza diverse, ma che diventano le facce della stessa medaglia, come «Broadway» che, giocato su un ritmo vertiginoso, sembrerebbe precipitare all’estremità più energica dello spettro sonoro, mentre «Stairway to the Stars», signorile ballata dotata di uno stemma gentilizio, tenta un allineamento con la conclusiva «A Night in Tunisia». Gordon e Powell sono bravi ad accorciare le distanze eliminando le differenze tra i vari moduli compositivi, ma una nomination speciale va alla batteria di Kenny Clarke. Mentre sul lato A era stato tenuto più o meno a freno dalla prima linea, il vecchio Kenny perde i freni inibitori, particolarmente in «Broadway», con una tambureggiata quasi in corsa, non appena il terreno diventa propizio al suo assolo; in «A Night In Tunisia» ruba addirittura la scena agli illustri sodali, elevando l’album ad un livello di superiorità ritmica, grazie ad un assolo degno di questo classico del bop, che riporta alla mente la versione live di Sonny Rollins al Village Vanguard. Dal canto suo il bassista Michelot agevola la performance del band-leader, il quale esplora un ampio spettro di possibilità tematiche, mentre Powell tenta la fuga con un assolo fortemente individualista, con Clarke che incassa le vergate del pianoforte e come un spadaccino risponde a dovere colpo su colpo.
«Our Man in Paris« potrebbe essere una Mecca per i puristi del bop, ma anche un piacevole approdo per chiunque nel jazz intenda cercare la bellezza formale e sostanziale, dove i dettagli sono fondamentali, ma la somma di ogni particolare si trasforma in qualcosa di sublime.
