// di Guido Michelone //

Benché oggi diradi sempre più le apparizioni in pubblico (concerti, recital, dischi) e della formazione originaria restino solo due persone, l’AEOC (Art Ensemble Of Chicago), resta sicuramente tra i più longevi jazz combo, sicuramente il più continuativo tra quelli politicizzati e sperimentali, soprattutto fra i grandissimi protagonisti della musica degli anni ’70, così come viene vissuta e interpreta in Italia, in Francia e in genere nell’Europa occidentale rispetto alla popolazione afroamericana degli stessi Stati Uniti d’America.

L’ensemble artistico chicagoano viene quindi fondato per l’esattezza nel 1968 come Roscoe Mitchell Art Ensemble, tre anni dopo la creazione dell’AACM (Association For The Advancement Of Creative Music) da parte dello stesso Mitchell: l’insieme si connota subito come un raffinato collettivo dell’avanguardia afroamericana in una metropoli a sua volta foriera di importanti svolte musicali e socio-artistiche. La band – quartetto, successivamente quintetto, assestatosi con Roscoe al sax contralto, Joseph Jarman al sax tenore, Lester Bowie alla tromba, Malachi Favors al contrabbasso, Don Moye alla batteria e durante i Seventies talvolta Muhal Richard Abrams al pianoforte – attraversa parecchie fasi distinte per stile, atteggiamento, estetica, prassi, come dimostra l’album capolavoro Fanfare For The Warriors (1973) che L’AEOC incide per la prima volta con un’importante etichetta, l’Atlantic del talent scout turco Ahmet Ertegun, da sempre rivolto ai giovani.

In queste ‘fanfare per i guerrieri’ – mai titolo può essere così emblematico – si ascoltano innanzitutto i forti richiami alla tradizione jazzistica dal boogie al bebop, a dimostrazione della conoscenza e del rispetto verso la propria eredità socioculturale. Ma il jazz-jazz viene subito rimescolato accanto a esplosive improvvisazioni free, brillanti parodie di sottogeneri bandistici e tributi duramente espliciti alla madre Africa. L’intero album viene quindi sostenuto da un solidissimo impianto musicale e da perfetti assolo strumentistici che fanno quindi di Fanfare For The Warriors un’opera decisiva che, da un lato, sintetizza al meglio la poetica del gruppo, dall’altro ne svela le qualità rivoluzionarie.

Fanfare For The Warriors a distanza di molti anni suona ancora come un disco innovatore e piacevole al tempo stesso, perché qui, meglio che in altre registrazioni sia precedenti sia successive di una produzione cospicua ed eterogenea, il versante del “teatro”, fra gesto, azione, performance a cui il gruppo dà estrema importanza, resta unico e singolarissimo. La teatralità dell’AEOC in Fanfare For The Warriors è insomma percepita quasi come palpabile, sino a farne lo stesso elemento filosofico della carriera dal vivo; e viene perciò inglobata con successo rendendo l’album più comprensibile di altre precedenti realizzazioni, aprendo persino a una svolta comunicativa (meno ermetica, cacofonica o stordente rispetto ai primi LP) che da allora rimarrà una costante del gruppo.

E non è forse un caso che il quintetto, cinque anni dopo, accetti di incidere Nice Guys addirittura per la bavarese ECM di Manfred Eicher, all’epoca impegnato con i suoi pupilli ‘orecchiabili’ Keith Jarrett e Jan Garbarek, nonostante validi precedenti con dischi free. In quest’album, dunque per una label sempre più votata al jazz ‘ascoltabile’ (e sempre più verso un côté intimista), l’insieme non abbandona la propria ‘aggressiva’ identità, giacché fin da subito si ascoltano palesi richiami alla tradizione jazzistica pura, repentine improvvisazioni free, parodie smaccate di generi bandistici, richiami etnicizzanti alla madre Africa, il tutto sostenuto da solide architetture musicali e da nitidi assolo fiatistici, che dunque fanno dell’intero album un’opera concreta atta a sintetizzare al meglio sia la poetica del gruppo sia le rivelatorie qualità innovatrici. Il summenzionato lato “teatrale” (decisivo dal vivo) è qui inglobato con successo, rendendo persino l’album più easy o comprensibile di altri precedenti, quasi ad aprire a un passaggio più morbido rispetto ai primi LP.

L’ascolto dei dischi, spesso ben assai curati dagli stessi musicisti (e dall’entourage produttivo), resta, a differenza di altri jazzmen afroamericani, un approccio parziale onde cogliere l’essenza di un gruppo che in scena presenta tre (Moye, Jarman, Favors) dei cinque membri pesantemente truccati, abbigliati, camuffati da stregoni africani, mentre gli altri due vestono rispettivamente un camice da medico (Bowie) e un abito al contempo vistoso ed elegante (Mitchell). La scelta visiva, che fra l’altro richiede parecchio lavoro nei camerini, è sinergica e sinestetica al messaggio che l’AEOC vuole lanciare: un invito a guardare all’Africa non solo quale coacervo di esperienze artistico-culturali, ma soprattutto come ponte fra passato, presente e futuro, che per gli afroamericani statunitense riguarda anche un modus specifica di fare musica.