Joe Henderson – «State Of The Tenor: Live At The Village Vanguard Vol. 1 /Vol2», 1986-1987

Alfred Lion, fondatore della Blue Note Records, dopo aver ascoltato la prima delle due sessioni disse: «Penso che questo sia davvero un album classico. Quello che suona Joe è incredibile. Questo è uno degli album più importanti che abbia mai sentito. È sicuramente uno dei migliori mai realizzati con la Blue Note. E non mi riferisco solo ai nuovi Blue Note. È uno dei migliori in assoluto, inclusi tutti i dischi che abbiamo fatto negli anni ’50 e ’60». Una dichiarazione certamente sincera, ma con qualche punta di pentimento sulla via di Damasco. Lion espresse tale giudizio nel 1986 un anno prima della sua morte e dopo circa vent’anni dalla dipartita di Henderson dalla Blue Note. Del resto, l’etichetta non era più affare di Alfred Lion da circa 19 anni, avendola ceduta alla Liberty nel 1967.

A metà degli anni ’80, Joe Henderson aveva 42 anni e si era già assicurato un posto nel pantheon dei sassofonisti di rango, ma la sua carriera era stata segnata da incertezze e da alti e bassi: dopo il debutto come band-leader con Blue Note nel 1963, l’album Page One diede l’avvio ad un proficuo periodo di collaborazione, durato quattro anni, con l’etichetta di Alfred Lion; in seguito il sassofonista godette i benedici di una lunga attività alla Milestone Records, che gli aveva assicurato un contratto più redditizio. Negli anni ’70, però, dovette arrangiarsi a fare il freelance, partecipando a produzioni discografiche, talvolta lontane dal jazz, fino al ritorno negli anni Novanta in pompa magna con la Verve, con cui si aggiudicò ben tre Grammy Awards, raccogliendo una popolarità di cui non aveva mai goduto in passato.

«State Of The Tenor: Live At The Village Vanguard», a volte distribuito in un unico package su CD, ma originariamente uscito in vinile attraverso due volumi separati, rimanda alle famose registrazioni del 1957 di Sonny Rollins al Village Vanguard. Pur realizzate a circa trent’anni di distanza, il paragone è inevitabile: entrambe rappresentano due punti cardine nella storia del trio pianoless. L’assenza di uno strumento cordale, come come il pianoforte o la chitarra, permise ad Henderson, accompagnato dal bassista Ron Carter e dal batterista Al Foster, una maggiore libertà espressiva sia sotto il profilo melodico che armonico, così come era accaduto al Colosso qualche decennio prima.

Stanley Crouch, critico musicale e romanziere afro-americano, paragonò i live di Henderson al Village Vanguard ad una serie di «lezioni di sassofono», soprattutto perché quelle sere al Village era sempre presente un nutrito gruppo di sassofonisti che assisteva alle esibizioni. Certamente, Henderson offrì un’autentica master-class in termini di improvvisazione. Sette di quelle esibizioni vennero pubblicate nel 1986 dalla Blue Note in un primo album denominato «State Of The Tenor: Live At The Village Vanguard Vol. 1», che non solo riunì Henderson alla Blue Note, ma fu anche il primo album pubblicato a suo nome dopo quasi cinque anni di magra e di lontananza dal mercato. Le registrazioni al Village Vanguard del 1985 dimostrarono che Henderson era all’apice dei suoi poteri creativi ed in possesso di una forza espressiva da non sottovalutare.

Il plauso del pubblico e della critica fu immediato, tanto da obbligare la Blue Note a versare la seconda «rata del canone» creativo l’anno seguente con «State Of The Tenor: Live At The Village Vanguard Vol. 2», soprattutto per accontentare le molte richieste di coloro che volevano ascoltare gli altri materiali registrati durante quei concerti. Tuttavia, il Volume 2 non può essere liquidato come una raccolta di avanzi. Il motivo per cui sei tracce furono escluse dal Volume 1 sembrerebbe più una scelta legata al gusto personale del produttore dell’album, il già citato critico Stanley Crouch, che non ad una selezione basata sulla riuscita o meno riuscita delle varie performance. Nel secondo capitolo, Henderson esplora alcune composizioni poco conosciute di Thelonious Monk, Horace Silver e Charles Mingus, un blues di Charlie Parker e due suoi componimenti originali. In particolare merita una sottolineatura «Boo Boo’s Birthday», una complessa composizione di Thelonious Monk, che il pianista aveva scritto per la figlia. Henderson la irrora di nuova linfa vitale, mentre Ron Carter e Al Foster creano uno sfondo ritmico dolcemente ondulato su cui il sassofonista intarsia le melodie asimmetriche e frastagliate di Monk con una serie di improvvisazioni serpeggianti.

Nonostante questa parentesi live, che divenne un punto di riferimento nell’ambito del bop post-moderno, la corsa di Joe Henderson sarà ancora in salita – come già accennato- fino al sodalizio con la Verve. Da qui in avanti i riconoscimenti non mancheranno, fino ad un’altra tappa importante nella carriera del sassofonista: l’incontro con l’italiana Red Records ed il produttore Sergio Veschi. Ma questa è un’altra storia che presto vi racconteremo con dovizia di particolari.

Joe Henderson