The Dizzy Gillespie Octet – “The Greatest Trumpet Of Them All”, 1957

// di Francesco Cataldo Verrina //

Esiste una specie di spada di Damocle che pesa sul capo del jazz. C’è sempre qualcuno che cerca il miglior “qualcosa” di tutti tempi. In questo caso, Leonard Feather scatenò una polemica senza senso nelle note di copertina originali dell’album, su chi fosse “il miglior trombettista jazz”. Come si possono paragonare tra loro artisti così diversi quali Louis Armstrong, Miles Davis, Roy Eldridge e Clifford Brown? Il noto critico jazz si doleva del fatto che la Verve avesse esagerato con questo titolo, magari ignorando l’importanza di due innovatori come Satchmo e Miles Davis. Chi ha buon senso, se non per gioco, evita di stabilire chi sia il “number one” in ogni ambito jazzistico. Ma Dizzy Gillespie non è stato anch’egli un innovatore, non ha rivoluzionato il vernacolo jazz inventando il bebop insieme a Charlie Parker, Thelonius Monk e Bud Powell?

Sicuramente il titolo dell’album, “The Greatest Trumpet Of Them All”, ossia “La più grande di tutte le trombe”, potrebbe apparire provocatorio o una scelta di marketing. Ad onor del vero lo stesso Diz, una volta, aveva dichiarato che Clark Terry fosse il più grande trombettista mai sentito. In realtà Gillespie era uno che seguiva la “raison d’etre” dei suoi predecessori come Armstrong ed Eldridge. Dizzy era prima di tutto un comunicatore sopraffino e, negli anni, era diventato uno dei più efficaci ambasciatori del jazz suonando ad un livello che la maggior parte dei trombettisti poteva solo sognare, portandosi dietro, quale avallo, il fatto di aver scritto pagine di storia determinanti e pervasive per quella che potremmo definire la forma d’arte più importante d’America.

L’estroso trombettista, al fianco di Charlie Parker, aveva svecchiato il linguaggio del jazz, soprattutto aveva portato il bop presso un vasto pubblico a livello planetario, attraverso una serie di registrazioni in vari formati, da quello orchestrale ai combo ristretti, piuttosto che con le big band afro-cubane. Nel 1957, anno in cui questo album fu registrato, Gillespie non era un caso ancora archiviato, sebbene il jazz guardasse altrove: il modale era in piena espansione e le avanguardie bussavano all’uscio, tanto che questa impresa del trombettista venne presa sotto gamba dalla critica. Ciononostante, 11 e il 19 dicembre dello stesso anno Gillespie registrò, con Sonny Stitt e Sonny Rollins, due sessioni bop ad alta energia, pubblicate come “Duets” nel 1958 e “Sonny Side Up” nel 1959, musicalmente all’opposto del più sobrio album in oggetto.

Eppure “The Greatest Trumpet Of Them All” presentata un Dizzy Gillespie attraverso differenti regole d’ingaggio e all’interno di un contesto relativamente nuovo: un ottetto con le composizioni e gli arrangiamenti di Golson e Gryce, un hub di collegamento tra il passato ed il presente del bop, oltre che strumentisti d’eccezione all’interno di quell’organico. Golson aveva già registrato con Diz nel 1956 come membro della sua big band. Gryce era stato membro dell’orchestra del trombettista nel 1955. Il contrasto fra la tromba di Gillespie e le architetture sonore di Golson e Gryce risulta assai interessante prendendo le distanze dalla precedente discografia di Diz, in cui si era spesso usato materiale più popolare o degli standard collaudati e proposti in maniera scanzonata; questo fu un progetto realizzato sotto forma di un concept basato su componimenti scritti appositamente per l’occasione e dotati di una struttura molecolare e di un tasso creativo assai consistente.

La sessione venne fissata su nastro a New York il 17 dicembre 1957 con Benny Golson sax tenore; Gigi Gryce sax alto; Pee Wee Moore sax baritono; Henry Coker trombone; Ray Bryant piano; Tommy Bryant basso e Charlie Persip batteria. L’album ribolle di sonorità vivide e giocose, frasi che esplodono di vitalità. Nella musica di Dizzy Gillespie c’era sempre l’ironia che cercava di deridere la società americana intenta a sostenere lo status quo ed incline a sopprimere il potenziale della gente di colore. Una maniera per burlarsi del mondo, quale antidoto nei confronti delle difficoltà della “razza”; atteggiamento che in passato aveva irritato molta gente come Cab Calloway che incolpava Gillespie per il comportamento malizioso e il suo stile complesso, definito “musica cinese”. La sua dissacrante interpretazione della politica e delle discriminazioni la dice lunga.

Nel 1964, Gillespie si candidò come indipendente alla presidenza degli Stati Uniti, promettendo di ribattezzare la Casa Bianca come The Blues House e nominare, tra gli altri, Duke Ellington come Segretario di Stato, Miles Davis come Direttore della C.I.A. e Thelonious Monk come ministro. In quel momento “The Greatest Trumpet Of Them All” portava soprattutto il brand di Golson e Gryce, che contribuirono con “Blues After Dark”, “Out Of The Past” e Just By Myself (Golson) e “Shabozz”, “A Night At Tony’s” e “Smoke Signals” (Gryce); l’album si completa con “Sea Breeze”, un pezzo dal mood latino che rimanda vagamente a Cal Tjader. Golson e Gryce erano uomini di jazz in divenire, forieri di blues, swing, bop ma anche atmosfere soft-core: il tenore vellutato di Golson ricco di tepore risulta vibrante e confortato dal sostegno del contralto di Gryce che procede soavemente per linee fluide.

La dinamite e la nitroglicerina non sono gli ingredienti di questo album che procede a pie’ leggero sostenuto da una sezione ritmica reattiva che sfiora le corde dell’anima, dove il pianoforte di Ray Bryant è ben integrato negli arrangiamenti dei due sassofonisti autori, i quali aggiungono elementi agro-dolci e piacevolmente contrastanti. Dal canto suo, Gillespie detta il ritmo e la tabella di marcia, caricando a volte la sordina: “Out Of The Past” di Benny Golson è un capolavoro da accademia del jazz. Ogni brano è accessibile, piacevole, melodico, poco impegnativo ed eseguito coralmente con abilità. Il modo di suonare di Gillespie appare controllato e senza sforzo, lontano dalla tipica epicità combattiva e gareggiante del bop. Si potrebbe parlare di un raffinato intrattenimento allo stato dell’arte. Di sicuro si può sostenere che Diz non sia stato il miglior trombettista di tutti i tempi, ma è, altrettanto, indiscutibile che sia stato uno dei più rappresentativi.

Dizzy Gillespie – “Perceptions”, 1961

Il “rude” inventore del bop Dizzy Gillespie, “l’uomo che teneva in piedi il movimento”, come sosteneva Miles Davis, con la sua concretezza contrapposta all’estrosa ed incontenibile creatività di Charlie Parker, si è cimentato anche in operazioni più strutturate, complesse musicalmente e molto ambiziose, come questo tentativo di praticare una “terza via”. L’album “ Perceptions” si snoda su un repertorio jazz non convenzionale con gli arrangiamenti di J.J. Johnson e la direzione di Gunther Schuller. L’album fu registrato nel maggio del 1961 con la produzione di Creed Taylor poco dopo aver assunto la guida dell’A&R in casa Verve. Il progetto originario prevedeva la presenza di tre sassofoni, che vennero però sostituiti con due arpe.

Questa la struttura dell”orchestra: Dizzy Gillespie, Robert Nagel, Bernie Glow, Ernie Royal, Nick Travis, Doc Severinsen e Joe Wilder (tromba); Jimmy Knepper, Urbie Green e Paul Faulise; Dick Hixson (trombone); Jimmy Buffington, John Barrows, Paul Ingraham e Bob Northern (flicorno); Bill Stanley e Harvey Phillips (tuba); Gloria Agostini e Laura Newell (arpa); George Duvivier (basso); Charlie Persip (batteria) e Michael Colgrass (percussioni). Johnson è l’autore dei sei movimenti contenuti nell’album, strutturati come un’opera classica su richiesta di Gillespie. La gestazione del progetto fu alquanto lunga, da quando Gillespie aveva approcciato Johnson dopo aver ascoltato il suo “Poem For Brass” contenuto nell’album “Music For Brass” del 1956. Johnson organizzò “Perceptions” tra il settembre 1960 ed il marzo 9161.

Come raccontato dalle note di copertina di Dom Cerulli: “All’inizio ho iniziato a pensare al ruolo di Dizzy nel cast. Continuo a pensare al ruolo che aveva interpretato con le grandi band. È un esecutore molto eccitante, sfiora tonalità altissime e molto velocemente. Ma volevo coinvolgerlo in un ruolo diverso perché poche persone sanno che Dizzy è anche un musicista molto sensibile con marcati doti liriche inespresse. Molti brani del suo repertorio non hanno mai evidenziato la sua grande capacità lirica e melodica. Volevo mostrare questo suo lato sensibile e lirico “. “Perceptions” ha le caratteristiche di un “unicum” con una scrittura per orchestra jazz di altissimo livello, anche se Dizzy Gillespie si era spesso cimentato nella dimensione orchestrale nell’arco della sua carriera. Alcuni critici trovano delle analogie e delle corrispondenze con “Cuban Fire” di Stan Kenton, arrangiato da Johnny Richards nel 1956 e “Such Sweet Thunder” di Duke Ellington nel 1957, ma in “Perceptions” si va oltre, è una terza via quasi sfiorata, a metà strada fra la tradizione orchestrale euro dotta ed una colonna sonora cinematografica di tipo jazz, che si esprime attraverso un articolato sinfonismo, con un Diz in una dimensione davvero inedita. Alle capacità intrattenitive ed interpretative, tipiche da decano del bop, il trombettista aggiunge anche un’evidente capacità narrativa dai forti connotati lirici e poetici. “Perceptions” è un album consigliato agli animi sensibili.

POST SCRIPTUM

Nel 1969 , Gillespie rispolvera il suo nome di battesimo ed annuncia l’avvento degli anni ’70, trasformando il vecchio soul jazz in un funk metropolitano e tagliente. “The Real Thing” è un disco visionario che anticipa i suoni della street culture ed il groove dell’hip-hop, arrivando al melting-pot tra vari derivati dellR&B molti anni prima di Miles Davis.

John Birks “Dizzy” Gillespie ‎– “The Real Thing”, 1969