// di Guido Michelone //
L’iter italiano del jazz negli anni ’70 riguarda anche critici musicali, in primis Franco Fayenz – nato a Padova il 18 gennaio 1930 –il quale, lungo il decennio,si prodiga generosamente a divulgare la storia del jazz firmando libri e articoli, curando. serie di dischi, scrivendo note di copertina e soprattutto proponendo conferenze con ascolti discografici lungo l’intero Paese. Una di queste conferenze, tenuta alla Fenice di Venezia, viene pubblicata su libro nel 1971 con il titolo Anatomia elementare del jazz, servendo a decine di giovani come vademecum per far luce su un oggetto misterioso per i quindicenni di allora. Fayenz si discosta in questo volumetto dalle opinioni diffuse tra gli altri esperti più o meno coetanei – di solito radunati attorno al mensile Musica jazz – che vedono il free, il rock, il soul, il jazzrock (e l’avanguardia in genere) come fumo negli occhi; non a caso il volume termine con due brani all’epoca recentissimi Going Up The Country dei Canned Head a Woodstock e My Back Pages di Bob Dylan (ma nella versione di Keith Jarrett) a sottolineare importanza del presente e del futuro di un sound raccontato solo al passato, fino ad addomesticarne il carattere oggettivo di musica ribelle, alternativa, controcorrente.
Negli anni ’70 durante le conferenze di Fayenz, a cui segue l’inevitabile sessantottesco ‘dibattito’ sono numerose le richieste di indicazioni discografiche per avvicinarsi al jazz; e per esaudire tali ‘desideri’, il critico, musicologo, giornalista s’interessa anzitutto i gusti musicali del ‘richiedente’ onde consigliare qualcosa di jazzisticamente affine. Lungo il decennio sono in molti a pensare che sul jazz occorra mettere il fruitore ‘di fronte al fatto compiuto’, ovvero informarlo che la storia del jazz nasce discograficamente nel 1917 e che da allora sono forse milioni i 78, 45, 33 giri usciti in tutto il mondo, ma basta una buona antologia di 90 minuti di musica per conoscere quei 12-15 capolavori su cui orientarsi. Ascoltando ad esempio almeno un esempio via via di hot, swing, bebop, cool, hard bop, free, jazzrock si potrà trovare senz’altro il jazz che fa allo scopo e da cui partire per ulteriori esplorazioni, se c’è ovviamente curiosità intellettuale. Durante gli incontri con Fayenz sono gli stessi uditori a citare il doppio LP I grandi del jazz (1961) da lui curato da Franco Fayenz e allegato all’omonimo libro in cui tratta assoluti mostri sacri come Jelly Roll Morton, Bix Beiderbecke, Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman e Charlie Parker.
Ancora negli anni ’70 il cofanetto di Fayenz resta un vademecum eccezionale, almeno per il sound tra il 1925 e il 1950, periodo secondo lui, giustamente, fondamentalissimo per apprezzare il valore intrinseco del jazz medesimo. Del resto è un periodo in cui – prima del boom di Umbria Jazz come festival gratuito – non è facile in Italia avvicinarsi al jazz e Fayenz si chiede spesso se il neofita, vecchio o giovane, voglia conoscere la storia del jazz dalle origini ai Seventies o avere qualche consiglio (in particolare discografico) su quali novità ascoltare; gli ascoltatori italiani in merito al jazz, soprattutto agli inizi del decennio risultano sostanzialmente ripartiti via via fra i nostalgici cultori del cosiddetto tradizionale (dixieland, swing, ma anche crooner alla Frank Sinatra); gli ex giovanottini ormai incanutiti che scelgono il moderno (pensando di fatto al bebop e al cool); i rari intellettuali alternativi che s’azzardano a parlare bene del free jazz; i ragazzi frichettoni che, accanto al prog rock, iniziano a entusiasmarsi per la nuova svolta di Miles Davis e dei suoi numerosi adepti.
La posizione di Franco al proposito è chiara, facendo ascoltare il Dylan rivisitato pianisticamente da Jarrett vuole ricordare che, sì, il repertorio jazzistico è storicamente tratto dalle canzoni, ma si tratta di espressioni musicali che precedono o ignorano il rock. Con l’avvento del rock and roll infatti tutto o quasi cambia negli ambienti musicali americani e poi europei: tramonta l’idea di una pop song che tantissimi cantanti possono intonare e incidere su disco, a favore di un atteggiamento più autoriale (l’interprete è performer, creatore, musicista, paroliere) oltretutto verso un dissolvimento della tradizionale forma-canzone, che la psichedelica, l’underground, l’hard rock, il progressive stravolgeranno ai massimi livelli sperimentali. Per il jazzman, abituato a improvvisare su un tema ‘facile’ si pone un delicato problema risolto in due modi diversi: riproporre l’ennesimo songbook anni ’20-’50 oppure fare da sé, azzardando ricerche espressive spesso radicalissime (come il free jazz). Sono rari, all’epoca, i casi di jazzisti che pescano dal repertorio rock, folk, soul (e pop contemporaneo) e se lo fanno si limitano a qualche canzone una tantum, come Gabor Szabo con Paint It Black dei Rolling Stones o Ella Fitzgerald con Savoy Truffle dei Beatles; ma negli anni ’70 non c’è insomma alcun travaso di rock nel repertorio del jazz, nessun pezzo diventa uno standard, nonostante i preveggenti incoraggiamenti di Fayenz.
