Clifford Jordan Quartet – “Repetition”, 1984
// di Francesco Cataldo Verrina //
Clifford Jordan è stato un sassofonista tenore dotato di una narrazione unica. La storia del jazz ha osannato e celebrato molto di più eroi votati alle innovazioni, alle sperimentazioni e alle improvvisazioni sfrenate e radicali; per contro Jordan possedeva un forte lirismo, tempismo e padronanza nei cambi di tempo, ma soprattutto un’innata capacità di apportare varianti al colore e alla voce del suo strumento, attraverso un suono ampio e brunito e di essere a proprio agio nei contesti armonici più disparati, abile nell’utilizzare le tonalità più vivaci del registro superiore, così come di estrapolare le tinte più morbide e profonde dal sax tenore.
Jordan era originario di Chicago, una città dove il jazz, sempre intriso di blues, ribolliva nelle viscere della terra e si respirava nell’aria. Una terra ricca di fermenti vivi, sovrabbondante di talenti, quasi un laboratorio di tendenze a cielo aperto. Lester Young fu il suo paradigma ispirativo. In gran parte autodidatta, il giovane Cliff aveva affinato la tecnica alla Du Sable High School, la rinomata istituzione dove due generazioni di musicisti jazz, nati nel South Side, furono guidati ed instradati dal mitico Walter Dyatt. Clifford Jordan è stato uno dei baluardi dell’hard bop fino al 1993, anno della sua scomparsa, avvenuta all’età di 61 anni.
Nel 1984, il sassofonista di Chicago era già un veterano, con una lunga carriera dietro le spalle, ciononostante “Repetition” lo colse in splendida forma fisica e mentale per quella che può essere considerata una corsa veloce, senza ostacoli: una sola sessione in quartetto, come si suol dire “high noon-midnight”, da mezzogiorno a mezzanotte, con Barry Harris al piano, Walter Booker al contrabbasso e Vernel Fournier alla batteria. L’album ha le caratteristiche di un “highlander” musicale, immortale e senza tempo: avrebbe potuto essere registrato alla fine degli anni ’50 come tre mesi addietro e nulla sarebbe cambiato. Per intenderci, “Repetition”, imperniato su un’ottima selezione di brani standard ed originali, possiede il raro dono dell’atemporalità: lo ascolti e non capisci, se non sei documentato, da quale epoca del jazz moderno possa provenire; è un lavoro legato alla tradizione ma con evidenti segni di attualità, diretto, preciso e millimetricamente fedele al vocabolario dell’hard-bop.
Passato quasi inosservato ed ignorato dalla critica, all’epoca felice di banchettare con astruse poltiglie sonore che con il jazz avevano poco a che fare, oggi, ex-post, meriterebbe una rivalutazione e un più ampio plauso da parte dei cultori del genere. Si è spesso portati a pensare che il bop non abbia più ragione di essere in quanto tale, eppure ancora oggi, nell’ambito del mainstream (che poi lo si chiami post-bop ha poca importanza) le regole d’ingaggio sono le medesime di un tempo. L’album contiene tre energiche composizioni originali: l’opener “Third Avenue” e il brano di chiusura “Quit in Time”, così come “ House Call” mettono in risalto non solo la magia del potere esecutivo di Jordan, ma anche la sua sapienza compositiva. Tutto il gruppo ha collaborato alla stesura dell’up-tempo “Fun”, che si candida ad essere uno dei momenti più efficaci dell’intero album.
La title-track, “Repetition”, di Neal Hefti viene riproposta in maniera avvolgente, mentre Jordan esprime tutta la morbidezza di un sax da mille e una nota, attraverso sonorità curvilinee e flessuose, distribuite con estrema finezza e piglio rilassato. L’esemplare reintepretazione di “Evidence” mostra l’intero line-up a proprio agio tra le cadenze tipiche e gli anfratti del fraseggio monkiano. Il medley di “Nostalgia” di Fats Navarro e “Casbah” di Tadd Dameron è un gioco al rilancio sul tavolo di un jazz di alta scuola, divenendo una sorta di lectio magistralis, anche per l’ascoltatore più scettico.
“Repetition”, registrato il 9 febbraio del 1984 al Classic Sound Studio di New York e pubblicato dall’italiana Soul Note, è un disco che procede su un binario dritto, senza bruschi cambiamenti di rotta, basato su un ottimo interplay ed un sinergico afflato fra tutti i musicisti, i quali sembrano impegnati a mantenere costantemente la rotta, senza tentare sortite a sorpresa e fughe impossibili verso l’ignoto che potrebbero determinare smarrimento nel fruitore medio. In “Repetition” non c’è nulla di rivoluzionario, ma solo un jazz eseguito in maniera mercuriale, con un massiccio groove ed un senso dell’orientamento bop non comune. Potrebbe sorprendervi!

Clifford Jordan – “Mr.Chicago”, 1985
Registrato l’8 agosto 1984 al Van Gelder Studio e pubblicato dall’etichetta Bee Hive Jazz Records, “Dr. Chicago” è un album che sottolinea il legame di Cliff Jordan con Chicago ed i musicisti provenienti da quell’area musicale. “Dr. Chicago”, scelto come titolo emblematico era già contenuto nel suo primo album per la Blue Note, “Blowing From Chicago”, pubblicato nel 1959, ma riproposto qui in una versione più veloce; soprattutto, questo brano, divenuto un classico, offre a Clifford Jordan, che ne fu l’autore, la possibilità di mostrare le sue capacità interpretative, venticinque anni dopo e alla luce dell’esperienza.
Con “Something To Live For”, Jordan esplora le radici del bop, attraverso un morbido groove insanguato di soul-blues, dove l’alternanza e l’interscambio tra il sax tenore ed il flicorno di Red Rodney offrono dei passaggi da accademia del jazz. “Zombie” è un brano dalla struttura assai originale, composto da Vernel Fournier, batterista della session, dove il sax di Jordan diventa l’assoluto padrone della scena, sostenuto dal volteggiante piano di Jaki Byard, il cui tocco appare a volte acuminato, altre leggero e volatile.
La B-Side si apre con “Touch Love” ancora l’incontro-scontro fra il band-leader e Red Rodney si sviluppa su un terreno levigato di funk incandescente; il movimento degli assoli è rapido e preciso, quasi fulmineo e sembra innescare quel classico duello fra strumenti a fiato, tipico della grande epopea bop, dilatato dal convincente basso di E Howard. “If I Had” è un romantico volo planante su morbide note, ricamate quasi all’unisono dal piano e dal sax di Jordan, il quale offre una dimensione lirica assai struggente, come solo i grandi sanno fare, quando sono alle prese con le ballate. La conclusiva “BeBop” di Gillespie è ancora un omaggio ai tempi della giovinezza ed un ritorno alle origini. Dopo “Blowin In Chicago”, Cliff Jordan aveva realizzato molti album eccellenti, ma “Dr. Chicago” è un disco sopraffino. Imperdibile!

Clifford Jordan & The Magic Triangle Ensemble – “Firm Roots”, 1975
The Magic Triangle Ensemble, ossia “nomen omen”, una sorta di forma geometrico-musicale perfetta intorno al perimetro sonoro di un Clifford Jordan in uno stato di grazia. “Firm Roots” è la seconda delle due registrazioni in studio realizzate da Clifford Jordan con The Magic Triangle Ensemble, Cedar Walton (piano), Sam Jones (basso) e Billy Higgins (batteria). durante il tour europeo nella primavera del 1975. Tutte e sette le tracce sono composizioni originali dei membri del gruppo.
Registrato e mixato il 18 aprile 1975 al Trixi Tonstudio di Monaco di Baviera in Germania, fu pubblicato dalla danese SteepleChees nello stesso anno. L’album si apre con la title-track, “Firm Roots”, composta da Cedar Walton, il cui gancio melodico attira subito l’ascoltatore in una spirale di volteggi ben disegnati dal band-leader, attraverso una serie di chorus rapidi e sequenziali, interrotti dai rullanti di Higgins, il quale rilancia Jordan per una serie di variazioni sul tema, incalzato, a trequarti del cammino, da una zampillante progressione pianistica, mentre Sam Jones garantisce un walkin’ perfetto, divenendo la chiave di volta di una perfetta architrave sonora; “Angel in the Night”, scritta da Higgins, è una vaporosa e struggente ballata, dilatata sul tempo di oltre otto minuti, introdotta e sostanziata dal piano di Walton e rifinita dal pungente e lirico flauto di Jordan; “Scorpio”, a firma Jones, è un’escursione dal sapore metropolitano, a tratti funkifed e dal vago sapore cinematografico.
La B-Side si apre con “Inga” , altro classico componimento di Higgins, un mid-range imperniato su una melodia a presa rapida, dove il sax di Jordan sembra ispirato da un musa inviata sulla terra “a miracol mostrare”, con la complicità di una sezione ritmica stellare; a seguire “Voices Deep Within’ Me”, un altro distillato dei neuroni creativi di Walton, un veloce bop post moderno calato in perfetta dimensione piano-trio, dove il magico triangolo concede un momento di pausa al sax del band-leader; a suggello, “One For Amos”, geniale componimento di Sam Jones, con grossi attributi soul-funk, che presto diventa una vetrina per tutti i partecipanti al set, i quali si susseguono e si passano la staffetta in un accorato interplay, cimentandosi in splendidi assoli da accademia del jazz. “Firm Roots”, oggi è nuovamente disponibile sul mercato, grazie alla ristampa audiofila in vinile da 180 grammi ricavata da master analogico.

Clifford Jordan – “Starring Time”, 1961
Registrato il 14 e il 15 giugno del 1961 al Plaza Sound Studios di New York con la produzione di Orrin Keepnews per Jazzland Records questo riuscitissimo set mette a contatto in prima fila il giovane tenore di Clifford Jordan ed un veterano della tromba, Kenny Dorham, sostenuti da un esemplare sezione ritmica: il pianista Cedar Walton, il bassista Wilbur Ware ed il batterista Albert “Tootie” Heath.
“Starrring Time” è un album decisamente interessante, per due aspetti: in primis non è il solito esercizio di stile, basato sulla riproposizione fedele di una manciata di standard accattivanti e ruffiani, ma si basa su materiale inedito, a parte “Do not You Know I Care” di Duke Ellington, unica vera ballata dell’album, che comunque viene restituita al popolo degli uomini in una forma completamente rinnovata e con un afflato inatteso, mentre il sax di Jordan dimostra di saper procedere anche a passo felpato e sui carboni ardenti; non meno importante la presenza di Kenny Dorham, come suggeritore privilegiato e spalla di lusso, nonché di Cedar Walton pianista ricco d’inventiva, i quali diventano, per quasi debuttante Clifford Jordan, una un viatico per le stelle.
La band macina con slancio gli originali di Jordan, Dorham e Walton, rendendo piacevoli delle melodie del tutto sconosciute attraverso un ottimo gioco di ruolo, fatto di passaggi sorprendenti e scambi al fulmicotone, soprattutto la ricchezza di assoli e l’alto tasso tecnico dei comprimari elevano costantemente il gradiente ed il gradimento della musica. Le tracce a firma Jordan, “Extempore” e “Quittin’ Time” evocano tutta la sua passione per funk-bop dalla corteccia dura, così come “Windmill” composta da Kenny Dorham, mentre “Down Through The Years” è blues con un ricamo melodico da brividi, dove sax e tromba innalzano un peana al dio della notte.
Spiccano su tutte l’iniziale “Sunrise In Mexico” di Kenny Dorham, dove il sax di Jordan da una prova di agility, muovendo su un percorso sonoro obliquo in odor di Coltrane, così come il nastro di partenza della B-Side “One Flight Down” di Cedar Walton esalta l’anima funky di Jordan, sponsorizzato dalla tromba di Dorrhan attraverso riffs veloci e taglienti, mentre il piano puntella il territorio con un picchiettare secco e metronomico. entrambi i solchi di apertura sono un attestato con il bollino di qualità per un album che non dovrebbe mancare nella collezione dei jazzofili di prima categoria. La facilità di fruizione ne fa, oltremodo, un piatto ricco e facilmente digeribile anche per i neofiti.