// di Guido MIchelone //
Secondo voi quale può essere il miglior disco di Franco D’Andrea? Prima di indicare la mia scelta personale, vorrei spendere qualche parola su un bellissimo libro uscito su di lui: “Franco D’Andrea un ritratto” di Flavio Caprera con premessa di Enrico Rava (uscito per EDT a febbraio). È un pianista schivo e tranquillo, pacifico e riservato, che non possiede la fama mediatica di altri jazzisti italiani oggi di moda nel mondo, ma che, in virtù di bon-ton e timidezza, compie, da oltre quarant’anni, un percorso artistico di estrema originalità.
Infatti il nome di Franco, nato a Merano l’8 marzo 1941, con studi da autodidatta di tromba, clarinetto, sassofono, compare già al pianoforte – strumento che non abbandonerà più, dedicandosi solo saltuariamente anche alla tastiere elettroniche, oltre la composizione e la didattica – con il gruppo di Nunzio Rotondo nel 1963 e in quello di Gato Barbieri dal 1964 al 1965. Da allora l’escalation professionale non ha paragoni in Italia per almeno tre decenni: fin da subito lo vogliono al loro fianco i maggiori solisti europei e americani, da Ambrosetti a Konitz, da Griffin a Rosolino. Si tratta di un accompagnatore ispirato, con idee molto avanzate sul piano armonico, che sa spingersi oltre i territori dell’hard bop per lambire le atmosfere di un free jazz moderato, quasi melodico.
Ulteriore verifica del talento e della ricerca di d’Andrea risultano le prime incisioni da leader sia pur condivise con altri due partner validissimi, Franco Tonani alla batteria e Bruno Tommaso al contrabbasso con il Modern Art Trio nell’album omonimo del 1970. Il passo successivo è una svolta imprevista, forse imprevedibile, per il pianista altoatesino: la costituzione, sull’onda del Miles Davis di Bitches Brew, di un gruppo jazz-rock, sulla scia del successo, tra Stati Uniti e Gran Bretagna, di nuove formazioni (Weather Report, Mahavisnhu Orchestra, Return To Forever, Headhunters, Oregon, Nucleus, Soft Machine) in cui mediano la tradizione afroamericana con le sonorità giovanili, grazie a eccellenti solisti jazz (oltre Davis, da citare Shorter, Zawinul, McLaughlin, Corea, Hancock, Carr, Wyatt) e ritmi e timbriche del rock angloamericano.

Chiusa l’esperienza con Perigeo, il pianista torna al jazz puro e per questo agli inizi soffre a livello psicologico di una autentica crisi d’identità musicale, nonostante i buoni jazz album registrati, fin da subito. Ma il momento di sconforto, tipico dei veri artisti, viene superato e D’Andrea diventa il jazzman italiano per eccellenza; vince tutti i referendum di ‘Musica Jazz’, registra e pubblica tre-quattro dischi all’anno, ritorna a collaborare con i migliori improvvisatori d’Oltreoceano (Gordon, Tolliver, Roach, Mobley, Thompson) e del vecchio Continente (Ponty, Thielemans, Wheeler), porta avanti in parallelo diversi progetti con svariati organici dal solo piano al trio, dal quartetto all’orchestra. Da allora la vita artistica di Franco continua senza soste: impossibile elencarne l’intera discografia perché gli album incisi a suo nome sono ormai decine e salgono a centinaia se si considerano le collaborazioni con altri musicisti, anche italiani.
Partito dall’ascolto di Evans, Hancock, Tyner, D’Andrea sa distaccarsene per uno stile personalissimo, che apre persino alla musica seriale e alla polifonia africana, benché restino intatti umori bebop ed echi mediterranei: c’è in lui l’esigenza di rinnovare il jazz inteso proprio quale musica di incontro e dialogo; e lo fa con rara delicatezza, senza mai appesantire le linee-guida comunque assai marcate. Alla fine resta un suono limpido pur nei contesti più ibridati: la perfetta articolazione va di pari passo a ritmi complessi e a una forza tranquilla che fanno levitare Franco sul jazz antico e moderno, viaggiando tra la memoria del ragtime e le cadenze libere, ben scandite, nota per nota, sotto il segno di Bud Powell e Lennie Tristano, proprio come si chiama l’ultimo album.
“Suono da autodidatta – è Franco stesso in persona a raccontare in Università – “ho chiaramente studiato, ma non in maniera classica, ho semplicemente perfezionato la mia tecnica, ma sempre da autodidatta, consultando vari libri che recuperavo qua e là, soprattutto ascoltando i dischi ed analizzando, cercando di capire come funzionino le cose. Negli anni Cinquanta non c’erano molte possibilità, non c’era niente, non c’era scuola; si partiva dai dischi fondamentalmente, perché si poteva imparare a suonare bene la musica classica, ma se si aveva il pallino del jazz, proprio non si riusciva a capir niente, se non da solo o con il consiglio di qualcuno che già suonasse”. Oggi poi D’Andrea è più arzillo, dinamico, giovanile che mai. Il segreto? È lui medesimo a suggerirlo: “Per prima cosa bisogna avere un dna robusto, e poi passione, motivazioni, infine non straviziare. Ricordo sempre quello che disse il medico legale nel referto di Charlie Parker: un americano nero di trentasei anni che ne dimostra sessanta”.
La mia scelta “No Idea Of Time” (1984) per la Red Records in quartetto con Barry Altschul, Mark Helias e Tino Tracanna!