// di Francesco Cataldo Verrina //
Sonny Rollins & Coleman Hawkins:, ossia “boss of modern tenor sax and the father of jazz saxophone”,
L’avvento del bop impose la figura del sassofonista (tenore e contralto) in maniera preponderante su tutti gli altri strumentisti. Quali siano stati i più grandi o meno o le solite liste interminabili di nomi, spesso dettati da gusti personali o da conoscenze legate allo studio, piuttosto che alla cotta passeggera per questo o per quel musicista o dall’interesse suscitato da un disco acquistato di recente, è un argomento che lascia il tempo che trova. Se io dovessi elencare quali sassofonisti preferisco nell’ambito del jazz moderno, vi scodellerei una lista di almeno trenta nomi, tutti con caratteristi eccellenti ed una discografia degna di nota.
Stilare classifiche di nomi e di dischi nel jazz ha poco senso, anche perché le variabili sono molteplici. Per alcuni suonare bene significa attenersi alle regole, per altri vuol dire infrangere quelle stesse regole. Esistono i cultori dello straight-ahead ed seguaci delle avanguardie, quindi è difficile conciliare le due scuole di pensiero. Proviamo a fare delle considerazioni e non solo la lista della spesa, altrimenti qualsiasi discorso rischia di non avere senso. In primis usciamo dai noi stessi e poi delimitiamo il raggio d’azione, per esempio al jazz moderno, dalla nascita del bop fino all’ultimo decennio del secolo scorso. In questo ambito leggo nei vostri post che le scelte ricadono sistematicamente su una decina di nomi, più o meno gli stessi, almeno cinque sono sempre presenti ed un paio immancabili nelle preferenze della maggior parte degli appassionati, ossia Coleman Hawkins e Sonny Rollins, i quali sono stati realmente i due sassofonisti più importanti della storia del jazz post-bellico.
Nell’album del 1963 realizzato insieme vennero presentati come: “boss of modern tenor sax meets the father of jazz saxophone”, ossia “il boss del sax tenore moderno incontra il padrino del sassofono jazz”. Ho preferito tradurre padrino perché, come molti sanno, Hawk tenne a battesimo la nascita del sassofonismo moderno, di cui in quel periodo Sonny Rollins era il perpetuatore per antonomasia della specie sax-sapiens. Mai un claim pubblicitario fu più azzeccato per descrivere non solo due musicisti, ma per fornire una sintesi dell’evoluzione del jazz moderno. Ciò non significa che Coleman Hawkins e Sonny Rollins siano stati i più grandi sassofonisti di tutti i tempi, incarnando una specie rara e limitata (come dicevo la lista sarebbe lunga) ma sono stati di certo i “più sassofonisti” di tutti i tempi ed in una catena genetica costituiscono, per differenti aspetti facili da intuire, una base evolutiva e generativa: tutti gli altri vengono dopo.
Coleman Hawkins e Sonny Rollins possedevano (parlo anche di Rollins al passato perché è in pensione) ognuna delle caratteristiche necessarie ad un suonatore di sassofono tenore: potenza, brillantezza, timbro, intonazione perfetta, quadratura melodica, velocità sui tempi doppi, prontezza nei cambi di tonalità, abilità nello sfruttare tutto il registro, maestria nelle ballate lente, capacità di adattamento. Molti importanti sassofonisti, tanti tra quelli citati più spesso, mi riferisco soprattutto ai loro coevi, non possedevano tutte queste peculiarità messe insieme: alcuni erano carenti in qualcosa, ma si tratta di tettagli e di sfumature. Qui parliamo di requisiti basilari che fanno la differenza, non di stili, generi e linguaggi usati: si può suonare, bop, hard bop, post-bop, tonale, atonale, dissonante, modale, fusion, free jazz, smooth jazz, ma un sassofonista è un sassofonista di livello superiore quando possiede talune doti o tutte quelle elencate messe insieme.

Sonny Rollins & Coleman Hawkins – «Sonny Meets Hawk!», 1963
Quando ci si trova di fronte a un disco come «Sonny Meets Hawk!» è lecito domandarsi quanto ci sia stato di spontaneo in un’iniziativa di questo genere e quanto di studiato a tavolino con finalità di mercato. Dopo la performance congiunta al Newport Jazz Festival del 7 luglio 1963, i due tenoristi cercarono di monetizzare il clamore mediatico che si era sviluppato intorno all’evento. Non capitava tutti i giorni che il decano dei sassofonisti, Coleman Hawkins, colui che aveva svecchiato il linguaggio del sax traghettandolo nell’era del jazz moderno e Sonny Rollins, all’unanimità considerato il suo discepolo ideale, suonassero insieme in un contesto festivaliero con una forza trascinante ed un impatto sulla folla, tanto da annebbiare tutti gli altri partecipanti, soprattutto i due si erano espressi attraverso una sintassi sonora ed un approccio al jazz così moderno da lasciare allibiti perfino i sostenitori delle avanguardie. La diplomazia discografica fece tutto il resto.
Registrato in due differenti sedute, il 15 ed il 18 luglio 1963, presso lo Studio-B della RCA Victor di New York, «Sonny Meets Hawk!» fu l’unica occasione in cui i due giganti del sassofono s’incontrarono in uno studio di registrazione. Il sottotitolo dell’album recita proprio «The Two Giants Of Tenor Saxophone» e, sicuramente, questo summit avrebbe dovuto tenersi prima, considerando l’ammirazione che il giovane Sonny nutriva nei confronti del vecchio leone del sax, di quasi trent’anni più vecchio, e che aveva sempre indicato come la sua principale influenza. «Da ragazzino conoscevo tutti i dischi di Hawk a memoria». Confessò più volte, Rollins, il quale nel frattempo aveva scalato tutti i gradi della scala gerarchica del jazz ed in quello scorcio degli anni ’60 era considerato uno dei capofila del sassofono moderno. Dal canto suo Hawkins amministrava il vantaggio anagrafico e la nomea di padre fondatore, cercando di alimentare il suo mito, attraverso partecipazioni ad eventi vari e collaborazioni in studio con altri fenomeni del momento. Per l’occasione furono della partita anche Paul Bley al piano, Bob Cranshaw o Henry Grimes al basso e Ray McCurdy alla batteria.
Chi non ha vissuto in tempo reale tali eventi, trovandosi tra le mani un disco di tal fatta, potrebbe essere scoraggiato nel leggere la tracklist, basata su una manciata di standard ed un solo componimento originale di Rollins, alimentando ancora di più il sospetto che si fosse trattato di un’operazione commerciale fine a sé stessa ed a rimpinguare i fatturati della RCA Victor. Ad un primo fugace ascolto, però, ci si rende conto che l’album possiede una marcia in più, dovuta non solo dalla somma algebrica del talento dei due tenori, ma dalla modalità in cui il costrutto sonoro venne arrangiato ed eseguito. In fondo una delle norme vigenti del jazz di ogni epoca dice che non è tanto importante ciò che si suona o chi lo suona, ma come si suona.
«Sonny Meets Hawk!» non fu una rimpatriata o una tenzone virtuale come era accaduto con «Coleman Hawkins Encounters Ben Webster» o il precedente incontro di Rollins con l’amico John Coltrane in «Tenor Madness». In questa circostanza non c’è complicità, empatia, completamento, ma solo contrasto. Addirittura, a tratti sembrerebbe che Rollins voglia sottrarsi al confronto, tentando di suonare con una modalità che ricorda vagamente Albert Ayler, anziché mantenersi sullo stesso terreno del sodale. E se anche tutto ciò fosse stato studiato a tavolino?
Per l’occasione i due vennero presentati come: «boss of modern tenor sax meets the father of jazz saxophone», ossia «il boss del sax tenore moderno incontra il padrino del sassofono jazz». Mai un claim pubblicitario fu più azzeccato per descrivere non solo due musicisti, ma per fornire una sintesi dell’evoluzione del jazz moderno. Ciò non significa che Coleman Hawkins e Sonny Rollins siano stati i sassofonisti per antonomasia, incarnando una specie rara e limitata ma sono stati di certo i «più sassofonisti» di tutti i tempi e in una catena genetica costituiscono, per differenti aspetti facili da intuire, una base evolutiva e generativa, essendo i due punti di partenza (o ripartenza) del jazz nella loro epoca di riferimento: tutti gli altri vengono dopo. Coleman Hawkins e Sonny Rollins possedevano ognuno dei requisiti necessari ad un tenorista: potenza, brillantezza, timbro, intonazione perfetta, quadratura melodica, velocità sui tempi doppi, prontezza nei cambi di tonalità, abilità nello sfruttare tutto il registro, maestria nelle ballate lente, capacità di adattamento.
Ciò che rende «Sonny Meets Hawk!» estremamente seduttivo ed interessante è l’arte dei contrasti tra l’approccio più armonico di Hawkins all’improvvisazione e lo stile più motivazionale di Rollins, che tende a sovrapporre un’idea all’altra spesso in maniera irregolare, al di fuori di quelli che erano i canoni del suo modus operandi: dal sax del Colosso fuoriescono delle piccole macchie creative a sprazzi che si espandono e crescono come idee non convenzionali. I due sembrano non incontrarsi mai, eppure tutto risulta ben amalgamato, merito sopratutto della sezione ritmica, che sembra stare al gioco delle parti. Hawk è il leone ruggente di sempre, quasi imperioso, mentre Sonny lambisce le zone di confine prossime al free con un radicalismo parossistico, attraverso corse uptempo, quasi dimentico del suo passato di perfetto agrimensore, delimitatore e rimodulatore del territorio hard bop.
L’ignaro fruitore moderno, trovandosi di fronte al classico double bill tra due eminenti musicisti che non avevano mai suonato insieme in uno studio prima di allora, potrebbe aspettarsi una musica ruffiana e confortevole, filtrata attraverso una ricercata alchimia tra i sodali. Al contrario, l’album sfida la forza di gravità con un approccio post-bop perfettamente al passo con i tempi. Rollins era un hard bopper incallito e Hawkins un musicista con un background formalmente swing: nessuno dei due aveva coltivato tentazioni avanguardistiche, eppure risposero in maniera egregia ai nuovi sviluppi del jazz a trazione anteriore.
Come già spiegato, i due partner avevano ridefinito i tratti somatici del sassofono tenore, ciascuno nella loro area di pertinenza spazio-temporale e generazionale; in tale circostanza, però, non interagiscono ma agiscono liberamente, come se stessero combattendo entrambi per la stessa causa, ma su campo diverso: nessuno dei due riesce a trattenere il fiato. Piuttosto che confrontare «Sonny Meets Hawk!» con altri dischi che Hawkins condivise con Henry «Red» Allen nel 1957, Pee Wee Russell nel 1961, o Duke Ellington nel 1962, si potrebbe invece fare riferimento alle avventure di Hawk a Bruxelles e alle due sedute realizzate per la Stash records, nel 1959 e nel 1962, contenute nell’album «Dalì» o alle registrazioni di Rollins di quel periodo, in particolare «On Impulse!» del 1963 ed il successivo «East Broadway Run Down» del 1965.
Sonny espelle immediatamente dal sax una raffica di inedite sonorità attraverso un fraseggio staccato e frammentario, soprattutto sulle misure iniziali dell’opener «Yesterdays», fino a giungere ai trilli fulminei del successivo assolo, stropicciando ad arte una melodia lenta e trasformando una ballata in uno strato di carboni ardenti, tanto da ricordare talune interpretazioni molto accidentate di Eric Dolphy. Pur non contravvenendo alle tradizionali regole d’ingaggio, Hawkins riesce ad immergersi e nuotare agilmente nelle acque limacciose agitate dall’irrequieto compagno di merende.
«All The Things You Are», diventa la vetrina espositiva per un assolo da manuale di Paul Bley, molto in odor di Andrew Hill, sebbene Bley sia sempre stato un accompagnatore più collaborativo e fedele alla linea rispetto al disarcionante Hill. Il delicato rimbalzo delle note ed una sorta di push and pull fra le tonalità producono alcune delle pennellate pianistiche più inventive e magistrali della carriera di Bley. Quando arriva «Summertime» ci si rende conto che la classica e melodiosa versione di Sidney Bechet, nel 1963, avrebbe potuto essere destinata solo ad una sfilata di biancheria intima alla moda. Diversamente Sonny Rollins diventa misterioso ed evanescente al contempo, come uno spirito alieno che spinge la melodia, l’armonia ed il ritmo ai confini della realtà, tentando di riplasmare con un effetto polarizzante la materia prima: il suono sassofono. Si ha quasi l’impressione che il Colosso stesse trattando lo strumento come un suonatore di violino, di tromba o un pittore esistenzialista, esplorando tutte le imperfezioni, le stranezze ed i colori grezzi e distorti del sassofono.
Alla fine di «Lover Man», Rollins esegue parecchie figure che saltano dalla chiave di basso ad un acuto stridore alla Dolphy, che culmina, per circa una ventina di secondi, in un acuminato fischio. Sono questi piccoli atti di decentramento sonoro a mettere in risalto la particolarità dell’album, aggiungendo un sapore gotico a quello che forse avrebbe dovuto essere un lavoro straight-ahead. C’è uno sforzo costante da parte del sassofonista di tenersi ai margini della costruzione sonora, lavorando spesso sul registro più basso della gamma del tenore ed impiegando abilmente un ampio vibrato. In teoria nessuna di queste tecniche sarebbe inaudita in un contesto jazz, ma il fatto che tali soluzioni vengano applicate a dei componimenti standard rende il contrasto ancora più evidente, conferendo all’album un’identità assai più distinta.
In «Sonny Meets Hawk», forse più che in qualsiasi altro momento della sua lunga evoluzione professionale, Hawkins fu in grado di raggiungere vette di creatività senza limiti in un gioco di «giovanile» esaltazione. Per tutto il disco, non appena Coleman termina un assolo, Rollins e Bley sopraggiungono con qualche artificio musicale non identificato, come se stessero tentando di andare in un’opposta direzione; perfino la sezione ritmica, specie le linee di basso di Bob Cranshaw a volte prendono una deragliante svolta verso l’esterno. Ovviamente Hawkins apprezzò l’opportunità di aver dovuto improvvisare intuitivamente al fianco di un sassofonista tenore tanto abile come Rollins, sempre pieno di risorse ed inventiva, soprattutto per l’intera durata del costrutto sonoro non perde mai la bussola, mantenendo un atteggiamento progressista, all’avanguardia e vicino agli sviluppi del jazz moderno: la sua versatilità era stata già utile e comprovata durante «We Insist! Freedom Now Suite» di Max Roach.
«Sonny Meets Hawk» non si adatta a nessun altro modello jazzistico precedentemente conosciuto. In ambito hard bop gli incontri fra due tenori rientravano quasi sempre nell’agone delle infinite battaglie a colpi di sax, sovente molto esaltanti, ma che di rado producevano qualcosa di musicalmente diverso da una pomposa e muscolare esibizione. Rollins aveva una tale ammirazione per Hawkins che suonare secondo i dettami dell’hard bop non gli avrebbe consentito di essere all’altezza del lirismo e del pathos del suo vecchio totem. Naturalmente, il principale contributo di questo album alla storia del jazz nasce dal fatto che non abbia nulla a che fare con lo stile classico dei due titolari del progetto o con la solita finta competizione tra similis cum similibus.
