“Il basso cosiddetto fretless viene usato nel rock già nei Sixties con Bill Wyman, John Paul Jones, John Entwistle, ma Jaco ne reinventa l’immaginario e ne rimuove i tasti riempendoli di mastice e rivestendo il manico con strati di resina epossidica e marina, onde approdare a un sound unico nel suo genere.”
// di Guido Michelone //
John Francis Anthony Pastorius III, per tutti Jaco, nato a Norristown il 1° dicembre 1951 e morto a Fort Lauderdale il 21 settembre 1987, benché esordisca discograficamente nel 1974 con i gruppi di Paul Bley e Pat Metheny e in proprio nel 1975, è solo dal 1976 quando entra nei Weather Report che il bassista diventa famoso a livello internazionale grazie alla carica di musica nuova insita nell’uso del proprio strumento: con la band di Joe Zawinul e Wayne Shorter resta all’incirca sei anni, durante i quali ha modo di dedicarsi ad altre iniziative, talvolta estemporanee, ma di notevole livello artistico, spesso immortalate in dischi altrettanto fortunati.
Infatti nel 2017 l’album inedito “Truth, Liberty & Soul: Live in NYC The Complete 1982 Jazz Alive! Recording” riporta una tantum l’attenzione sullo sfortunato bassista, nei modi, nel look, negli atteggiamenti più simile a una stella pop maledetta che a un jazzista contemporaneo: e infatti una notte, come sempre, negli ultimi mesi, ubriaco e strafatto, viene brutalmente aggredito al Midnight Battle Club dal buttafuori che non lo riconosce: dopo il pestaggio resterà in coma irreversibile per dieci giorni.
Tuttavia il problema della tossicodipendenza per Jaco (e per la sua musica degli anni ’70-‘80) resta quasi una costante di una vita tutta “genio e sregolatezza”: è la causa dell’allontanamento da Weather Report, forse la miglior fusion band di ogni tempo, dove diventa quasi una rock star nel manifestare appieno la propria fantasia musicale, per la quale viene ancora oggi ricordato da tutti i bassisti elettrici di ogni stile, levatura, professionalità. Pastorius inventa o comunque porta all’acme, la tecnica del basso strappato, nel far sì che lo strumento non solo risulti più funky, ma soprattutto esegua perfettamente le linee melodiche; con il pollice snodato regala altresì assolo furiosi su uno sgangherato fender jazz, simbolicamente lavorando su quanto Jimi Hendrix rivoluziona alla chitarra circa dieci anni prima; del resto il basso elettrico viene usato nel rock già nei Sixties da Bill Wyman, John Paul Jones, John Entwistle, ma Jaco ne reinventa l’immaginario e ne rimuove i tasti riempendoli di mastice e rivestendo il manico con strati di resina epossidica e marina, onde approdare a un sound unico nel suo genere.

Ma ritenere Pastorius solo il grande bassista dei Report di Shorter e Zawinul o lo swingante accompagnatore della cantautrice Joni Mitchell o ancora il jolly creativo in tantissimi dischi (jazz, rock, pop, reaggae, soul), da Airto a Hancock, da Ian Hunter a Jimmy Cliff, è fare un torto al musicista in quanto bandleader e compositore: ciò che per fortuna sta emergendo appieno negli ultimi anni, tolto il velo di ipocrisia sugli aspetti morbosi di un’esistenza indubbiamente rovinata da eccessi comportamentali, è proprio il Pastorius autore, alla testa ad esempio della Word of Mouth Big Band: pur nell’attività irregolare e altalenante dei concerti e degli ellepì ufficiali (e dei CD postumi fra i pochi live disponibili) affiora una duplice enorme intuizione da parte dell’artista: da un lato l’impiego della grande orchestra in un contesto fusion, dove la componente rock non risulti solo banale rivestimento (come accade ad altre coeve esperienze) e dall’altro lato la possibilità di far interagire il basso elettrico – anche quale strumento solista – con la massa delle sezioni fiatistiche.
Oggi, per ricordare degnamente un grande del jazz (e della musica in toto di fine Novecento) lo si può anzitutto disco graficamente amare nella bella raccolta Punk Jazz: “The Jaco Pastorius Anthology” (2003) oppure nei sei LP weatheriani tra il 1976 e il 1982 – “Black Market”, “Heavy Weather”, “Mr. Gone”, “8:30”, “Night Passage” e l’omonimo “Weather Report” – o ancor meglio nell’esordio collettivo “Pastorius/Metheny/Ditmas/Bley” (1974) e nei due album solisti usciti in vita “Jaco Pastorius” (1976) e “Word of Mouth” (1982), benché siano alcuni live postumi da “The Birthday Concert” (1981, ma edito nel 1995) “A Holiday For Pans” (1982, bootleg del 1993) a render meglio l’energia e la propulsività di un performer a tutto mondo; e in tal senso il doppio “Truth, Liberty & Soul: Live in NYC The Complete 1982 Jazz Alive!” assieme a Bob Mintzer, Randy Brecker, Peter Erskine, Don Alias, Othello Molineaux e due sezioni di ance e ottoni resterà un documento ineludibile per chi dai diciott’anni fino a quel fatidico 11 settembre ama definirsi “il miglior bassista del mondo”.
Discutere di Pastorius è doppiamente necessario – e non a caso anche a lui è dedicata la voce Trilogue – perché rappresenta un caso più unico che raro di esistenza dissipata, con un talento buttato alle ortiche in un ambito, quello jazzistico, dove tutto inizia ma anche tutto finisce in quegli anni per quanto concerne l’uso della droga. Certo, ma si tratta di una questione delicata, ardua da redimere, perché Jaco nella musica degli anni ’70-‘80 è uno dei tanti in mezzo a vittime sacrificali che tutti conoscono e sulle quali circolano fiumi d’inchiostro.
