// di Francesco Cataldo Verrina //

Hank Mobley è stato un personaggio schivo e lontano dalle cronache mondane. Morto prematuramente a soli 56 anni, era un uomo riservato e dal carattere chiuso ed enigmatico. Per la gioia degli appassionati di jazz ha fatto parlare molto lo strumento, lasciando in eredità ai posteri un ricco patrimonio discografico, quale testimonianza tangibile della sua attività di autentico monster del sassofono tenore. Il fatto di trovarsi sulla stessa strada due calibri come John Coltrane e Sonny Rollins gli precluse molte possibilità, sia a livello carriera che a livello di notorietà, ma questa annosa questione riguarda molti sassofonisti tenori coevi di quella generazione, passati in secondo piano a causa di un terreno, in quegli anni, molto battuto ed affollato.

Hank Mobley, classe 1930, aveva la stessa età del Colossus e quattro anni meno di Trane, per questo nel corso della sua attività, cercò sempre vie alternative, diversificando le collaborazioni e cercando di apportare costantemente delle variazioni al suo stile, pur rimanendo legato di base al bebop e all’hard-bop. La discografia di Mobley, nella quasi totalità, è costituita da session in studio, mentre dell’attività live e concertistica resta poco o nulla. Si pensi a quanto quest’uomo fosse poco interessato ai clamori e alla ribalta dei media, nel corso della sua trentennale carriera ha concesso soltanto tre interviste: a Phil Woods per Jazz Magazine, a John Litweiler per DownBeat ed a Val Wilmer per Melody Maker.

Il suo primo approccio con il jazz avvenne attraverso il sax contralto; di seguito tentò anche con il baritono, prima di giungere definitivamente, verso la fine degli anni ’40, al sax tenore, soprattutto al fine di non scontrarsi con Charlie Parker, la cui nomea in quel periodo appariva tracimante. Come accennato, l’inatteso arrivo di Rollins e di Coltrane scompigliarono, però, le carte del destino di Mobley, che non fu in grado di eguagliare il prestigio dei due famigerati colleghi, nonostante negli anni successivi riuscì ad avere una notevole influenza su tanti sassofonisti post-bob, nella fattispecie quelli più interessati ad oltrepassare e scardinare i rigidi canoni del jazz mainstream: uno su tutti Archie Shepp. Ciò aiuta molto a comprendere la genesi di un disco come «No Room For Squares».

Hank Mobley fu sempre molto richiesto negli studi di registrazione per tutta una serie di motivi. In primis egli era in grado di muoversi agilmente attraverso vari stili, passando dal canonico bop ai moduli espressivi più all’avanguardia; e poi perché, nonostante la dipendenza dalla droga (ciò lo costringeva a lavorare molto per procurarsela), manteneva costantemente un aplomb professionale e corretto in relazione agli impegni presi. Dal punto di vista tecnico era sempre una garanzia, riuscendo a dare profondità e personalità al suono. Nel novero dei grandi sassofonisti tenori, aldilà della notorietà e del successo commerciale, Mobley va certamente considerato «primus inter pares». Come altri giganti del bop, possedeva un tocco unico e personale, mentre la sua musica si caratterizzava per un tratto assai distintivo. Potremmo dire che sia stato una sorta di maestro del «pensiero laterale», vuoi per necessità o per calcolo, vuoi per istinto o per genialità, ma nel suo concepire il jazz non vi è nulla di imitativo, banale o prevedibile. Il suo modo di agire durante i vari set e le innate virtù esecutive hanno garantito a molti ensemble spessore musicale ed evidenza creativa, anche in virtù di una vena compositiva assai spiccata. Erano molte le formazioni che continuavano, ad esempio, ad usare i temi creati da Mobley, anche quando la collaborazione s’interrompeva. Nello specifico, Art Blakey, mantenne nel repertorio dei Jazz Messengers, molti pezzi scritti da Hank, dopo la sua uscita dal gruppo.

Hank Mobley

Quando nel 1963, Mobley diede alle stampe «No Room For Squares», molti critici musicali pensavano che fosse sul viale del tramonto, in realtà la scintilla creativa innescò una delle più riuscite sessioni della sua carriera. In quel periodo, raccogliendo le nuove istanze del jazz, Mobley aveva operato una sorta di metamorfosi nel tono e nello stile, sostituendo l’ariosità scintillante degli ultimi anni ’50 con una modalità espressiva più decisa e diretta, quasi a cercare il clamore, dovuto in parte all’influenza di John Coltrane , in parte ad un lavoro certosino sui vari brani, al fine di rendere le sonorità più attuali. La band «d’assalto» assemblata da Mobley dimostrò di avere tempra e carattere, dando vita ad una specie di doppio set assai innovativo, fatto di materiale scritto da lui o dal trombettista Lee Morgan. Furono della partita anche, a fasi alterne, il pianista Andrew Hill, il batterista Philly Joe Jones, il bassista John Ore, il trombettista Donald Byrd, il pianista Herbie Hanckok ed il bassista Butch Warren.

La title-track, «No Room For Squares», racchiude in sé tutta l’essenza dell’album: gli scambi in prima linea tra Mobley e Hill, con alterazioni e divagazioni melodiche sono da manuale, e dopo un breve assolo di piano, Hill mette in gioco Morgan che riporta il tema sui i binari della regolarità. «Me ‘n’ You», scritta da Morgan, è un aggressivo tema dal sangue blues sostenuta da un ritmo di samba variato, dove l’assolo di Mobley, alterna frasi e trilli taglienti ed ostinati, seguendo un percorso fatto di cambiamenti repentini, in cui la linea musicale è dettata dal suo respiro piuttosto che dal cambio di accordi. Morgan estrae dal cilindro magiche sfumature blues, colorando le estremità delle sue linee con inserti brevi e raffiche spezzate, adattandole al cromatismo sonoro di Hill. Tutti i brani si muovono con fluidità simile e offrono un approccio molto grintoso e realista, scavando fino alle radici dell’hard-bop.

I compilatori di storie del jazz, e parte della critica, sono stati ingiusti, probabilmente distratti, forse hanno dedicato a Mobley meno spazio e meno considerazione di quella che meritava. Oggi a posteriori c’è molta rivalutazione di artisti di questo calibro, all’epoca sottovalutati o ignorati. Miles Davis che lo aveva avuto nel quintetto per un breve periodo, nella sua autobiografia, con il solito atteggiamento da eterno guascone, lo liquida in maniera lapidaria: «Suonare con Hank non mi divertiva, non stimolava la mia immaginazione». Ma Davis lo diceva spesso di tutti coloro che temeva potessero adombrarlo, Sonny Rollins compreso, che non poteva gestire o sottomettere, come aveva fatto per lungo tempo con John Coltrane. Eppure, si racconta che Hank Mobley fosse un abile improvvisatore, (il suo lavoro in studio e le decine di registrazioni ne sono una testimonianza), capace di intercettare tutte le istanze provenienti dagli altri componenti del gruppo durante una session e duttile ad adattarsi a qualsiasi esigenza espressa dal «capo pattuglia».

Personalità musicale troppo spiccata quella di Mobley per un padre-padrone come Miles Davis, che cercava sovente gregari, sia pure di lusso e geniali, ma non comprimari o altri attori con cui dividere la scena. Racconta Marvin Gaye, che durante il suo periodo di massima ascesa, dopo l’album «What’s Going On», alla Motown pensarono ad un disco insieme a Miles Davis, il quale declinò l’offerta dicendo: «Io e Marvin siamo entrambi due prime donne, sarebbe difficile dividere la scena». Di diverso avviso era invece Benny Golson: «Hank Mobley resta il più lirico sassofonista che abbia mai ascoltato. Con il suo strumento lui cantava». In verità, il sassofono di Hank Mobley pur suonato con decisione e virile potenza, riesce ad avvolgere la sua musica con un vellutato rivestimento di note, attraverso un tono quasi amichevole, come se volesse comunicare personalmente con ogni singole ascoltatore, raccontargli una storia fatta di assoli e melodie, come si fa con un amico o pochi intimi.

Hank Mobley diceva di frequente: «Vorrei ottenere un specie round-sound un suono rotondo, senza spigoli, né troppo morbido, né eccessivamente potente». Il suo timbro appare spesso come imbottito e felpato, mentre le sue frasi sonore sembrano lasciare una scia, come una luce che si perde lentamente nell’oscurità. Questo gioco gli riusciva particolarmente bene soprattutto nelle ballate e pur non avendo inclinazioni di tipo cool, spesso, al contrario di molti boppers, evitava di abbondare con gli assoli, non raddoppiava quasi mai il tempo, allungava le note, quasi a volerle far giungere a destinazione, ossia all’ascoltatore, una per una. La liricità del suo strumento compensava a volte una certa ritrosia nell’eccedere nella melodia multistrato.

Più che a John Coltrane o Sonny Rollins, ma neppure a Dexter Gordon, Sonny Stitt, Lester Young o Coleman Howkins, quando si pensa a Hank Mobley, bisognerebbe fare mente locale su un altro eccellente sassofonista dimenticato, Don Byas, che rappresenta una di cinghia di trasmissione tra una sorta di bop a tinte cool. Potremmo definire Hank Mobley come un moderno Lester Young con più fiato in gola ed un timbro più dinamico e deciso. Forse va analizzata anche la sua vita familiare, molti dei suoi consanguinei si cimentavano con uno strumento musicale. «Da piccolo, volevano che suonassi il pianoforte», racconta Hank, «ma io preferivo giocare a guardie e ladri». Ob torto collo, iniziò a studiare pianoforte ed, in seguito, imparò il sassofono da autodidatta. Soprattutto uno zio musicista contribuì allo sviluppo della sua personalità. Mobley fece tesoro dei suoi consigli: «Se sei con qualcuno che suona forte, tu suona morbido. Se qualcuno suona veloce, tu suona lento. Se cerchi di suonare le stesse cose degli altri, allora sbagli».

Fu proprio lo zio a fargli ascoltare Lester Young, che sarebbe rimasto a lungo uno un punto di riferimento, un’ombra vagante fra le mura della sua fortezza creativa. Ma il genoma artistico di Hank Mobley si manifesta attraverso una costante crescita: adotta il jazz modale, accetta le strutture tipiche e più ortodosse dell’hard-bop, si adegua con facilità alle situazioni più viscerali, sperimentali ed estreme, distilla a volte un suono sontuoso, altre lineare e cristallino, sovente lo ammanta di seta pura. Una personalità complessa e ricca di sfumature, espressione di una grandezza ancora non del tutto svelata, in parte da scoprire.

«No Room For Squares» è certamente uno dei dischi più riusciti dell’intera stagione bop ed ascrive di diritto Hank Mobley nell’albo dei grandi. Tutti i musicisti sono in uno stato di grazia. Non è un disco per neofiti, richiede qualche ascolto ripetuto, ma sappiamo che semplicità e complessità sono a volte le due facce della stessa medaglia, quando le muse giacciono lascive e lussuriose nell’alcova di un artista.

EXTRALARGE

Hank Mobley with Donald Byrd and Lee Morgan”, 1957

Un’ottima sessione con molto fiato in gola e una grande energia. Un giovanissimo Hank Mobley che esordisce come band-leader ad un appena un anno dal suo arrivo in casa Lion, affiancato da due fra più accreditati trombettisti del periodo aureo dell’hard-bop, ovvero Donald Byrd e Lee Morgan, anch’essi debuttanti come solisti proprio tra il ’55 e il ’56, con Morgan a detenere il primato di musicista più giovane del gruppo: all’epoca aveva appena diciott’anni. Pubblicato nel 1957, “Hank Mobley With Donald Byrd And Lee Morgan”, costituisce una rarità Blue Note registrata in un’unica sessione il 25 novembre 1956 al Rudy Van Gelder Studio, dove vengono eseguite, per la prima volta, quattro composizioni originali di Hank Mobley, il quale aveva soltanto 26 anni ed uno stile ancora tutto in divenire. Il timbro e la forza espressiva di Mobley sono già evidenti, ma il cammino verso la consacrazione sarebbe stato ancora lungo ed accidentato.

L’album conosciuto anche come “Hank Mobley Sextet” nasce soprattutto dalla collaborazione fra i tre musicisti riportati nel titolo. Oltre a Hank Mobley al sax tenore e Donald Byrd e Lee Morgan alla tromba, fecero parte della squadra anche Horace Silver al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Charlie Persip alla batteria. Tutte e quattro le lunghe composizioni di questo album evidenziano una vena creativa alquanto contenuta rispetto al livello di espressività raggiunto negli anni successivi dal sassofonista. Il gruppo di giovani talenti-amici si esibisce in modalità “jamming band” attraverso linee armoniche semplici e facilmente prevedibili, sostenute da grooves lineari, ma coinvolgenti. I duelli fra le due trombe ed il sax sono sempre energici ed allineati agli schemi ritmici, mentre le melodie risultano alquanto fresche ed a presa rapida. Ognuno dei musicisti è sempre vigile e ben collegato all’ensemble, riuscendo a dare una risposta immediata all’improvvisazione dell’uno, dell’altro o viceversa. Parliamo di un classico del jazz degli anni ’50, ancora legato alla tradizione bebop del decennio precedente e alle radici dell’hard-bop. Per il giovane sassofonista tenore rappresenta solo un primo passo verso la maturità che avrebbe iniziato il suo corso nel ’57 con l’album “Hank Mobley Quintet”. Parliamo di un progetto comunque piacevolissimo e adatto particolarmente ai neofiti, la cui prima stampa originale raggiunge quotazioni assai elevate che si aggirano intorno ai 1500 euro.