// di Francesco Cataldo Verrina //

PREMESSA

Il giorno della morte di Jimmy Cobb, rattristato ed avvilito, fui spinto a scrivere alcune parole in maniera alquanto sorgiva: “E’ morto Jimmy Cobb, uno dei batteristi più rappresentativi della storia del jazz, parte della sua fama è legata alla collaborazione con Miles Davis con il quale ha partecipato ad alcuni storiche registrazioni: Kind of Blue, Sketches of Spain, Someday My Prince Will Come, Live at Carnegie Hall, Live at the Blackhawk, Porgy and Bess, Sorcerer ed altri. Jimmy Cobb aveva 91 anni. La figlia, qualche mese fa lanciò una raccolta fondi per poterlo curare e sostenere le spese mediche, scrivendo: “mentalmente e spiritualmente mio padre è giovane ed energico come sempre, ma negli ultimi due anni ha dovuto fare i conti con alcuni problemi di salute che lo hanno molto provato fisicamente. Sfortunatamente non gli è stato possibile ricevere le cure adeguate a causa di problemi economici”. Questa è l’America del capitalismo selettivo, dove i soldi vengono prima delle persone, dove lo Stato non ti cura se non sei ricco, dove l’ignoranza delle istituzioni non è in grado di salvaguardare quei pochi elementi di valore, come i musicisti jazz, che in un paese giovane e con una storia breve, rappresentano gli unici elementi di distinzione e caratterizzazione. Il jazz è l’unico fenomeno artistico, musicale e culturale con cui l’America può competere con l’Europa e con il mondo antico, ma la maggior arte degli Americani pensano che sia il baseball.

Miles Davis – “In Person Friday And Saturday Nights At The Blackhawk”,1961

Miles Davis ha lasciato tracce significative della sua presenza in ogni epoca del jazz, sospinto da un trasformismo costante, che lo ha portato a tracciare sentieri talvolta antitetici e contraddittori nel breve volgere di pochi anni. Un predestinato capace di scavare sempre un solco nel nel quale altri poi avrebbero seminato o cercato di coltivare gli stessi semi creativi prodotti dall’eclettico ed inquieto trombettista. Con buona pace di quanti hanno acclamato il suo volo avanguardista e le sue alchimie fusion, questo album live rimane uno dei momenti migliori della sua carriera, quando anche l’uomo del cambiamento perpetuo si misurava col sintassi jazz più ortodossa, affinando il suo pregio migliore, ossia il sapersi circondare spesso di validi collaboratori e sidemen, tra cui un talento non comune come JImmy Cobb alla batteria

Questo set, del 21 e 22 aprile 1961, è stato il primo live di Miles Davis registrato in un piccolo club, il Blackhawk di San Francisco. Le due serate erano state programmate anche come data di registrazione dal vivo, tanto che i fonici si erano organizzati per ottenere il meglio del suono all’interno di un club. Il Blackhawk, venerato dai jazzofili, era comunque considerato un locale adatto alle registrazioni live, alla stessa stregua del Village Vanguard di New York. Erano passati meno di due anni da “Kind of Blue”, dunque Miles cercò di ripetere lo stesso schema, con due varianti: Hank Mobley al sax tenore e Wynton Kelly al piano insieme a Paul Chambers al basso e Jimmy Cobb alla batteria. In altre parole, quasi la stessa sezione ritmica di KOB (anche se in quell’album Wynton fu presente solo su una traccia e Bill Evans su tutto il resto).

Cannonball e Coltrane avevano spiccato il volo, i due non erano mai stati in competizione al seguito di Davis, soprattutto facevano cose completamente diverse, Adderley era più attratto dal soul-blues e dal bebop tradizionale, Trane era uno sperimentatore delle strutture armoniche, dal canto suo Hank Mobley si inserì molto bene nel difficile organico di Miles, pur essendo tendenzialmente meno solista-improvvisatore e più uomo di squadra. Ciò diede alla nuova combo una spinta notevole ed un contributo di solidità percepibile in ogni traccia. Se fosse durato di più, questo ensemble avrebbe potuto diventare uno dei migliori fra i tanti sperimentati dall’eclettico trombettista-leader.

Per uno una scelta editoriale, non di certo per una dimenticanza, la Columbia nella prima tiratura del 1961 non elenco sulla copertina del disco il nome dei componenti del gruppo. Decisione davvero insolita, se non curiosa. I brani suonati in “In Person Friday and Saturday Nights at the Blackhawk” e distribuiti con un doppio album, sono per lo più familiari: sul primo volume troviamo “Walkin”, “Bye Bye Blackbird”, “All Of You”, “No Blues”, “Bye Bye (Theme)” e “Love I’ve Found You”, mentre sul secondo disco, “Well You Needn’t”, “Fran Dance”, “So What”, “Oleo”, “If I Were a Bell” e “Neo”. Tutto le esecuzioni sono dritte e regolari, forte la spinta ritmica, ma senza avanti e indietro sul sax. Da parte sua, Mobley, come dicono gli Americani, doveva mettersi nelle scarpe (noi diciamo nei panni) di due mostri sacri e lo fece con disinvoltura ed eleganza, lanciando una notevole quantità di energia dalla prima linea. Pur essendo meno focoso di Coltrane e meno “gigione” di Cannonball, Mobley apportò un pizzico di collegialità in più al gioco di squadra.

Sono però Cobb e Chambers a stendere il tappeto ritmico su cui la band passeggiò, mentre il piano di Kelly riempie lo spazio nel registro centrale con attacchi percussivi, ma armonicamente inventivi. Mobley si allontana da suo marchio di fabbrica, mettendo da parte il carattere l’hard-bop, per sfogliare il libro dei sogni di Sonny Rollins; persino Davis usa il metodo dell’incursione a sorpresa con cui si era fatto una reputazione ai tempi di Charlie Parker. Chambers sembra l’uomo sul quale tutto ruota, il perno centrale che distribuisce e assegna le parti con perfetto dosaggio. Lui e Cobb si muovono uno verso l’altro, così Chambers traduce gli schemi ritmici mutevoli e li passa a Kelly, con cui interagisce istintivamente, quindi attraverso Kelly la staffetta passa ai due solisti, ossia tromba e sax.

L’impulso costante e la dinamica in continuo cambiamento permettono a kelly di essere una parte integrante della sezione ritmica (al contrario della controparte melodica della prima linea) lasciando spazio ai due fiati di muoversi all’interno dei ponti che crea tra le due fazioni (basso-batteria e tromba-sassofono) con una serie di modi armonici e intervallari che tira continuamente fuori dal cilindro, alimentando le fughe di Chambers in termini direzionali, soprattutto in verticale, piuttosto che in orizzontale. Interessante il contrasto tra i brani di apertura registrati venerdì ed eseguiti con più furia, dove ogni comprimario si aggrappa alle disposizioni di Miles e quelli del sabato, quando le diverse architetture cromatiche vengono erette non solo durante gli assoli, ma dall’insieme della band. Il sabato, il set appare più svogliato: uptempo nella maggior parte dei casi, ma guidato da sorta di comfort. “In Person Friday And Saturday Nights At The Blackhawk”, dopo tanti decenni, mantiene ancora il fascino di un suono incontaminato. Questo è il Miles Davis che non dovrebbe mancare in nessuna collezione jazz che si rispetti.