// di Francesco Cataldo Verrina //

Questo album di Hank Mobley ha fatto storcere il naso a molti critici spocchiosi e saccenti, che lo considerano troppo spensierato, quasi alieno rispetto al mondo circostante dell’epoca, soprattutto perché in quel periodo il jazz si esprimeva con virulenza, trasversalità e formule anarchiche, spesso avulse dal pentagramma. In verità, «Reach Out» del 1968 è forse uno dei dischi più anomali mai realizzati da Mobley, ma solo perché mette da parte la sua voglia di primeggiare, assoggettandosi ad un progetto molto più collegiale e fatto di spazi equamente condivisi.

Sulla base di quella che era la politica aziendale e strategica della Blue Note, che cercava sempre di distillare dei prodotti destinati al grande pubblico, questo disco contempla appieno gli assunti basilari dell’etichetta. «Reach Out» è un album che guarda al pop, ma tutto ciò non va considerato una deminutio capitis, anzi tutt’altro, va inteso come una forma di difesa da parte della Blue Note, al fine di riservare una corsia preferenziale al jazz mainstream, preservandolo dalla furia dello sperimentalismo che imperversava in quegli anni, il quale, a parte alcuni riusciti prodotti innovativi, stava trascinando il bop verso il delirio free e la contaminazione radioattiva della fusion. In effetti, «Reach Out» fu una delle poche volte in cui Hank Mobley lasciò a casa il bollente spirito, guerresco e aggressivo dell’hard-bop, per concentrarsi su un costrutto più leggero, una sorta soul-jazz elegante e raffinato, indirizzato più verso il facile intrattenimento e meno verso la corsa alla cambiamento. In sostanza, questa session si concretizzò in un prodotto orientato al grande pubblico, preferendo, ad esempio, ai classici standard jazz, due cover pop, «Reach Out (I’ll Be There)» e «Goin ‘Out of My Head», ma soprattutto creando un’atmosfera rilassata ed intrigante.

Tutto ciò non fu affatto un limite, basta fare mente locale sulla formazione in campo: Woody Shaw (tromba, flicorno), George Benson (chitarra), Lamont Johnson (pianoforte), Bob Cranshaw (basso) e Billy Higgins (batteria). Il loro desiderio di rendere la musica attraente e ricevibile da un vasta audience trova ampia contemplazione in «Reach Out», famosissima hit Motown dei Four Tops scritta dal trio delle meraviglie, Holland-Dozier-Holland, e fortemente catalizzante, dove George Benson suona la chitarra richiamando lo stile di Wes Montgomery, quando questi era alle prese con i suoi album infarciti di cover di successi d’alta classifica. Mobley accetta il ruolo di co-protagonista in tutte le partiture, gli altri attori sulla scena non erano di certo figuranti. Il sax ottiene una parte del bottino sonoro, ma ai comprimari non restano solo le briciole.

In effetti, la presenza di Mobley nel disco risulta assai contenuta, concedendosi un esaltante momento di gloria con «Good Pickin’s», brano da lui composto, forse il momento più riuscito dell’album, che si srotola come un rilassante bop. Hank intesse, con grazia sottile, un ammaliante incantesimo sonoro dalle linee lunghe e liquide, ma senza viaggi interstellari verso sconosciuti universi. «Up Over And Out», altra riuscita composizione di Mobley, si muove su un percorso funkoide, dove a furoreggiare è soprattutto la tromba di Woody Shaw, il sax sembra inseguire, ma c’è spazio per tutta la prima linea: dapprima la chitarra di George Benson e poi a seguire il piano Bob Cranshaw, quindi la batteria di Billy Higgins che accompagna la tromba al finale, mentre i sax fa da sostegno e contrappunto. «Lookin’ East», sempre a firma Mobley, riporta i auge il sax, ma la dinamica sequenziale è quella del classico bop: uno per tutti e tutti per uno, senza voli pindarici, ma solo brevi accenni di variazione sul tema. «Going Out Of My Head» è una ballata mid-range dall’andamento regolare, dove il sax sembra ricamare quelle atmosfere lineari e cadenzate, tanto care a Lester Young, creando un netto spartiacque tra jazz d’intrattenimento e jazz di rottura. Qui siamo alla musica per ambienti di pregevole fattura, niente formule segrete ed enigmi da decifrare. L’album chiude i battenti con «Beverly», qui è la tromba che lancia sottili strali di melodia, corti e spaziati, il sax crea ariosità, ma alla tromba sarebbe bastata una sordina, per richiamare alla mente Miles Davis, la chitarra accentua il suono crepuscolare del brano, che viaggia comunque a velocità di crociera, giungendo in porto con la tromba che sembra davvero avere il vento in poppa.

Di certo «Reach Out» non può essere considerato come uno dei dischi più rappresentativi della storia e dell’evoluzione del jazz, non ha le caratteristiche tecniche e strutturali in senso tradizionale, anche se negli originali Mobley suona con la sua solita languida bellezza ed il trombettista Woody Shaw contribuisce con un tono puro e cristallino, ma analizzato a posteriori con un gusto moderno, il disco è di una bellezza disarmante e, comunque, documenta la ricerca di raffinatissimi artisti, i quali tentano una dimensione praticabile, un metodo di applicazione diverso per alcuni stilemi. Rispetto a quegli anni, un album con tali caratteristiche potrebbe apparire addirittura avanti, anticipando di un decennio lo smooth jazz. «Reach Out» non è mai piaciuto ai critici, non era un disco sperimentale o complicato, uno di quei lavori che solo loro dovevano e sapevano spiegare, ma che non tutti potevano capire, per questo è consigliato a chiunque, anche a chi del jazz non ne vorrebbe neppure sentire l’odore.

«Reach Out» ha un grande pregio, ossia quello di essere un disco facile da fruire e piacevole dalla prima all’ultima nota: all’interno non ci sono scosse di terremoto e catastrofi sonore improvvise, con smottamenti e rottura degli argini musicali. Come disse Mobley nell’intervista a Valerie Wilmer, paragonando il modo di suonare ad processo simile allo shopping: «È come andare in un negozio di alimentari, lo sai, andiamo tutti lì e compriamo gli stessi prodotti, ma alcuni ne comprano più di altri e li cucinano in modi diversi». Per capirci, «Reach Out» non è e non era un disco di tendenza. Ma per la legge del contrappasso, sappiamo che tutto ciò che un tempo non fu di tendenza, oggi sta diventando di moda.