// di Guido Michelone //
Quando fa uscire il primo album, “Azimuth”, nel 1972, il Perigeo viene spacciato come una nuova sensazionale prog band, a cominciare dalla copertina con il profilo di un’aliena in controluce fra zampilli luminosi. Ma sentendo attentamente i lunghi brani quasi tutti strumentali si avverte una fortissima componente jazzistica: e non può essere altrimenti, giacché, a parte l’americano Tony Sidney, gli altri quattro (Claudio Fasoli, Franco D’Andrea, Giovanni Tommaso, Bruno Biriaco) vengono dal free o dal be-bop. Infatti già dal secondo LP prevale ormai la vena rock-jazz che proietta il gruppo ai vertici della fusion mondiale, pur continuando a riempire gli stadi in Italia e all’estero come una grande rock band.
Infatti “Abbiamo tutti un blues da piangere” vince il Premio della Critica Discografica come miglior album jazz possiede un linguaggio vicino al rock grazie all’insistenza timbrica e ai volumi alti compensati da frequenti ritornelli tanto sognanti quanto orecchiabili: il tutto quasi a mandare in pezzi certa leziosità jazziale che a sua volta si ancora al purismo e alla tradizione.
Il Perigeo volta dunque le spalle al free e all’hard bop per seguire delle proprie new directions con idee chiarissime al proposito: si tratta insomma di proseguire nella contaminazione, avendo il rock quale punto iniziale per approfondire le sfumature funky, favorendo alla fine una miscela sonora – ieri e oggi chiamata progressive – dove i virtuosismi e le individualità sono a freno a favore di un gioco collettivo che fa emergere anche un gusto precipuamente italiano per talune dolcezze melodiche. Tommaso (fra l’altro fondatore della band), Sidney, D’Andrea, Biriaco, Fasoli, nei loro abiti moderatamente hippy, o casual si confermano dunque, non solo i componenti ma gli artefici di un gruppo immenso, che, grazie a questo, al precedente e ai tre album successivi resta insuperato nel panorama italiano che si muove tra prog e jazzrock gli anni Settanta.
Se c’è dunque una vicenda esemplare nella storia della musica dei Seventies italiani questa non può essere che il lustro trascorso insieme da quattro ‘ragazzi’ italiani e un boy americano sotto il nome di Perigeo. Dal 1971 al 1976 infatti il quintetto con basso elettrico (e contrabbasso), Fender Rhodes (e pianoforte), sax tenore (e soprano), batteria (e percussioni) e chitarra elettrica (e acustica) riempie via via stadi e palasport, fa da spalla nientemeno che a Soft Machine e Weather Report, trionfa nelle varie feste del proletariato giovanile, con due LP raggiunge la Top 20 e con uno la Top 10 delle hit parade (stabilendo un record imbattuto per album jazz strumentali). Il Perigeo insomma riscuote un successo massivo, grazie alla sorpresa e all’entusiasmo di folle perlopiù di post-adolescenti politicizzati, ottenendo altresì il consenso della critica musicale più aperta (Franco Fayenz) e rockettara (Gino Castaldo), ma non quello degli esperti jazz di stampo boppistico (i dubbiosi Arrigo Polillo e Giancarlo Roncaglia).
Ma per capire meglio il Perigeo è consigliabile la lettura di un libro del 2019 di Luigi Onori dal titolo Perigeo una storia tra innovazione e sperimentazione, in cui fa due cose che tutti i jazzologi dovrebbero avvalorare: da un lato analizzare l’intera discografia a partire dai cinque long playing realizzati in studio e da quelli dal vivo (talvolta postumi); dall’altro intervistare i diretti interessati su argomenti precipuamente musicali. È solo così (analisi dei dischi e interviste ai musicisti) che si può spiegare il jazz contemporaneo. Solo così che si intuisce la grandezza di una band inserita di straforo nel prog rock non tanto per affinità di vedute quanto piuttosto per un discorso di numeri e di quantità. Come del resto ribadiscono da sempre Tommaso & Company, il Perigeo non ha nulla a che fare con i pur bravi (anche secondo i cinque) Banco, PFM, Orme, eccetera (solo con gli Area è possibile un accostamento sia per una vena decisamente sperimentale sia per la provenienza di metà del sestetto dal jazz). Ma se il Perigeo suonava accanto a loro nei vari festival pop è per il già citato gradimento delle nuove generazioni.
Il Perigeo, inoltre, dal punto di vista delle doti strumentistiche, del virtuosismo solista, nell’interplay e dell’improvvisazione è spanne e spanne sopra tutti gli altri e dal vivo non lesina apertura decisamente jazz, talvolta quasi free, che lasciano a bocca a parte i ragazzi abituati a sentire i solisti tre accordi di rock più o meno aleatorio. La musica del Perigeo va proprio in questa direzione: non tanto l’impegno politico (manifestatosi solo indirettamente attraverso i titoli di alcuni brani o la partecipazione ai festival di sinistra di cui sopra) quanto nell’idea di fare buona musica, avvicinando più gente possibile al jazz, mediante gli stilemi del rock, sulla base di quanto sta facendo già dal 1969 un certo Miles Davis e di lì a poco quasi tutti i jazzmen americani.
