“Partendo da tre accordi base del blues, Bird riusciva inventare melodie complesse ritmicamente e armonicamente.”

// di Irma Sanders //

Molti di noi non sarebbero qui, oggi, a parlare di jazz, se non ci fossero stati Charlie Parker e la rivoluzione epocale apportata attraverso il bebop. Al principio non tutti furono pronti a stendere un tappeto sotto i piedi di questo trasandato sassofonista, una specie di eroe maudit che sfidava la sintassi del jazz, demitizzando le icone del passato, soprattutto certa stampa, retriva e reazionaria, non comprese che, l’anelito di cambiamento e di rinnovamento insito musica di Bird e della sua generazione di irrequieti boppers, avrebbe presto travolto e scompaginato il vecchio e stantio universo del jazz pre-bellico, imponendo altri giochi di ruolo e differenti regole d’ingaggio. Coloro che trassero benefico, riuscendo ad ottenere il massimo dall’insegnamento di Bird furono quelli che individuarono subito nella sua musica un fattore «rivoluzionario», un’estensione del vocabolario sonoro e dello spirito del jazz, una nuova ricchezza e flessibilità di espressione, un costante rinnovamento e rivitalizzazione del genere.

L’influenza di Armstrong dettò legge sui primi vent’anni di storia del jazz e fu, probabilmente, il fattore dominante fino al 1944 circa, anno in cui Charlie Parker approdò con la sua musica nei vari ritrovi della 52esima Strada. In quell’anno, il mondo cominciò a sentire il suono di «Bird» e lo scenario mutò. Molti cercarono di emularlo, altri trovarono stridulo il canto del suo strumento e le critiche arrivarono a valanga; altri ancora non fecero nulla di meglio che porre l’accento sulla sua vita privata, un po’ disastrata, disorganizzata e condizionata dalla dipendenza da alcool e droga. Partendo da tre accordi base del blues, Bird riusciva inventare melodie complesse ritmicamente e armonicamente. Estensioni e alterazioni delle armonie blues, sospensioni irrisolte, ritardate o anticipate, spesso, creavano un effetto di politonalità o atonalità nei suoi assoli. Ritmicamente, anche durante i suoi voli pindarici più rapidi, spostava gli accenti dappertutto, dal battito forte a quello più debole. Bird impiegava le pause, spesso al punto di partenza di un chorus, per creare tensione o effetto sospensione, o perché potesse entrare di soppiatto e mettere in movimento un ensemble poliritmico, sostenuto nelle retrovie da batteria e basso.

Se pensiamo alla quantità di materiale sonoro che c’è in giro, tra vecchie stampe, ristampe, registrazioni live (anche pirata) e in studio, si potrebbe pensare che Charlie Parker abbia avuto una vita lunghissima. In verità morì a soli 35 anni, e questo amplificò il suo mito. Ciononostante, la carriera artistica e discografica non fu esigua: a 17 anni suonava già come professionista in big band o combo e le sue prime incisioni risalgono al 1940. Ovviamente, se la sorte gli avesse riservato un differente destino, oggi avremmo avuto ben altri dischi di Charlie Parker e, magari, conosciuto una sua evoluzione o un’ennesima rivoluzione sonora. Tutto ciò che attraversa velocemente il mondo degli uomini e il corso degli eventi artistici, determinando cambiamenti, si trasforma in un mito. Ma Charlie Parker è stato anche un uomo con le sue debolezze, le sue fragilità, le sue contraddizioni, il peso di una vita vissuta ad alta velocità, da cui trasse nutrimento ed ispirazione. La sua musica, ma soprattutto lo «stile Parker» sul sax contralto, a distanza di oltre settant’anni dal suo avvento, risulta ancora vitale e fonte d’ispirazione per migliaia di giovani musicisti in tutto il mondo.

Max Roach, Charlie Parker e Sven Bolheim, 13 maggio 1949.