«I due sassofonisti rappresentavano l’incarnazione vivente di quella «buona vecchia direzionalità di propulsione in avanti», come una volta Gunther Schuller chiamava lo swing».
// di Francesco Cataldo Verrina //
I cultori più incalliti e tutti i veri conoscitori degli Steely Dan sanno che Fagen e Becker erano abili maestri nelle armonie jazzistiche tradizionali. I due, oltre ad essere sempre stati interessati al genere, come scrisse qualcuno, sembravano addirittura ossessionati dall’iconologia e delle figure allegoriche o simboliche del jazz. Si erano cimentati, per esempio, in un pezzo dedicato a Charlie Parker, «Parker’s Band», riarrangiato «East St. Louis Toodle-Oo» di Duke Ellington, adattandolo allo stile della loro rock-fusion band, ma soprattutto avevano condotto un esame particolarmente approfondito su ciò che potesse determinare il tipico impulso jazz nei loro brani come «Deacon Blues», dove compare proprio un assolo di sassofono tenore di Pete Christlieb.
Chiunque, però, avesse voluto fare una scommessa vincente, non avrebbe mai puntato sull’accoppiata di questi due sax tenori, cosi diversi per estrazione e anche per dato anagrafico, ma loro azzardarono ed il risultato fu assai gratificante. Di certo, l’abbinamento tra Warne Marsh e Pete Christlieb poteva apparire alquanto surreale. Marsh era già uno vero fuoriclasse del sassofono tenore; aveva perfezionato la sua tecnica sotto la rigorosa influenza e la rigida disciplina di Lennie Tristano, ma molto presto era riuscito a sviluppare uno stile personale del tutto imprevedibile. Capace di suonare nel corso di una singola frase sul doppio tempo, a metà tempo e, apparentemente fuori tempo, ma proprio quando sembrava in letargo rispetto a battito della retroguardia, si riprendeva la scena, cavalcando con facilità l’onda d’urto ritmica.

Pete Christlieb, figlio di un celebre fagottista, era uno valido swinger, tecnicamente ordinato, molto straight ed essenziale, membro del gruppo Tonight Show per diversi anni, era solito esibirsi in un locale con un piccolo gruppo, con il quale riusciva ad impressionare molti avventori; ed proprio lì che Fagen e Becker, dopo averlo studiato attentamente, con tutta probabilità, abbiano pensato di abbinarlo a Warne Marsh. Si vocifera, anche, che Pete e Warne, da soli, avessero già avuto l’idea di suonare insieme, tentando varie registrazioni con duetti di tenore, sostenuti da basso e batteria, ma che alla fine abbiano trovato la strada maestra nelle mani di Walter Becker e Donald Fagen, due personaggi che in quel periodo erano assai conosciuti e titolari di un super gruppo rock con vendite al platino: gli Steely Dan, nei cui progetti usavano a rotazione fior di musicisti in prevalenza di estrazione jazz-fusion.
Per Walter Becker e Donald Fagen produrre un disco di jazz in purezza, poteva essere solo un tributo al loro genere musicale preferito. Siamo nel 1978, e senza il loro appoggio, non sarebbe stato facile convincere una major come la Werner Bros a pubblicare un album di hard-bop, in un momento in cui il jazz mainstream stava vivendo il suo venerdì nero, non tanto a livello artistico, ma quanto commerciale. Il jazz classico si era disperso in mille rivoli sospinto dall’urlo dissonante del delirio free, spersonalizzato in tante combinazioni, surclassato dal rock, depredato dalla fusion; per contro la presenza di Walter Becker e Donald Fagen e del marchio Stely Dan fu una sorta di garanzia su una fideiussione bancaria. Se combinazione ci fu, di certo non fu del tutto spontanea, ma studiata a tavolino, magari con finalità ambiziose.
E così, in modo dritto o tortuoso, ma inevitabile, si arriva ad «Apogee», il primo album jazz prodotto da Fagen e Becker, il primo lavoro di Christlieb per una major e il primo disco di Marsh per una major dopo anni di astinenza. E fu un record spettacolare per gli standard di chiunque in quel periodo. I due attori principali formarono una squadra perfetta con Lou levy al piano, Jim Hughart al basso e Nick Ceroli alla batteria, grazie alla quale i loro stili a volte antitetici, offrono un contrasto rigenerante l’uno per la musica dell’altro, sprigionando un talento impressionante, proiettando lungo tutto il percorso dell’album un’impressione, forse ingannevole, ma estremamente corroborante, che conduce l’ascoltatore in una situazione di totale abbandono e cedevolezza nei confronti della musica. Il disco emana lo stesso effetto maliardo e seduttivo dei lavori degli Steely Dan.
Si tratta di un prodotto jazz eccezionalmente creativo e molto raro in quel momento, anche presso le tradizionali etichette discografiche amate dai cultori di bebop e derivati; nonostante il commento di Fagen sul fatto che il disco potesse essere adatto ai «Fanatici del tenore», possiede abbastanza idee e spunti creativi per poter piacere a chiunque. Anche i meno esperti, già al primo ascolto, capiscono che venne prestata molta attenzione alla confezione di «Apogee». Per cominciare, bisognava individuare una buona sezione ritmica. Lou Levy, il pianista, con i suoi accordi ricco e abilmente spalmati sulla tavolozza musicale, inquadra brillantemente gli assoli dei due tenori, canalizzandoli verso improvvisazioni vivaci e coscienziosamente inventive. Il bassista Jim Hughart e il batterista Nick Ceroli seguono la corsa sulla strada maestra, senza tentare sortite azzardate, manovre improbabili o fughe di sorta; i due rappresentano l’incarnazione vivente di quella «buona vecchia direzionalità di propulsione in avanti», come una volta Gunther Schuller chiamava lo swing.
Joe Roccisano, che aveva vissuto nell’appartamento di Christlieb ed arrangiato dischi per Phil Woods, tra gli altri incarichi, tirò fuori alcune carte vincenti per questa session. Tutti i brani, ad eccezione di «Donna Lee» di Charlie Parker e dello standard «I’m Old Fashioned», originariamente più melliflui, recano il tocco di Joe Roccisano. «Magna-tism» è fondamentalmente un’improvvisazione su uno standard, «Just Friends» che Christlieb aveva suonato alcuni anni prima e che Roccisano aveva avuto l’incarico di scrivere. Marsh preferì orientarsi verso «317 E. 32nd», una linea impegnativa del suo vecchio mentore Lennie Tristano, mentre «Rapunzel» è la prima composizione bop di Fagen e Becker. «Probabilmente è stata la prima melodia di bebop basata sugli accordi di una recente canzone popolare», dice Fagen, «la canzone è «Land of Make Believe» di Burt Bacharach e Hal David, diversa da quella di Chuck Mangione con lo stesso nome. Ho ascoltato questo brano in un disco di Dionne Warwick e ho pensato che sarebbe stato interessante farne una versione jazz per sassofono». «Tenors of the Time», è invece una composizione del geniale Roccisano.

L’album si apre con «Magna-tism», dando il via al botta e risposta dei due tenori: dopo alcuni riffing che introducono il tema, prima Christlieb e Marsh in seconda battuta, trascino la band in un crescendo di suoni magneici. «Pete è un sax tenore bruciante con con quel tipico suono del Texas ricco di soul e blues», dice Fagen. «Emette un’incredibile quantità di energia ed è tecnicamente di alto livello, ma non rimani deluso nemmeno quando nel disco Warne lo segue, perché Warne è così dannatamente interessante». Infatti, Warne è praticamente perfetto in questa dimensione, Risulta multidirezionale, le sue linee sembrano districarsi a scatti e sobbalzi, espandersi, contrarsi e raddoppiarsi su se stesse. Eppure proietta un’aura di rilassamento, mentre le sue note fluiscono.
Marsh, Hughart e Ceroli danno il meglio nella pezzo di Tristano, «317 E. 32nd». Le frasi di cinque note eseguite dal sax tenore, subito dopo l’entrata di Levy, hanno l’inconfondibile marchio a fuoco del mitico Lennie. Levy risulta molto sicuro ed intraprendente nel suo assolo di piano, mentre Chistlieb riesce a dare un tocco di classe alla sua improvvisazione. «Rapunzel», uno dei momenti più suggestivi dell’album diventa una vetrina per tutta la band: dietro l’assolo di basso di Hughart, arriva l’obliquo ma coerente Marsh, poi Levy, a seguire Christlieb, quindi il contrappunto più ispirato e densamente intrecciato dell’album tra i due tenori.
La B side si apre con «Tenors of the Time» che inizia all’unisono e sembra che uno dei sassofonisti non voglia mai allontanarsi troppo dall’altro, con Christlieb in solitaria in prima istanza, seguito da Marsh che mantiene la temperatura costante senza interruzione. I due sassofonisti inventato una specie di immagine riflessa l’uno dell’altro sul tema di «Donna Lee», che presenta nuovamente Christlieb e Marsh in rapida successione. «I’m Old Fashioned» è un classico tutto ad appannaggio di Christlieb, il quale esegue mirabilmente questa vecchia ballata dal fascino sottile e duraturo. L’assolo di Levy termina con una piccola coda scintillante, seguita da una breve frase di Christlieb che mette il sigillo di ceralacca sull’opera. «Apogee» è un album assai interessante, considerando il periodo di immissione sul mercato, di certo non ha rivoluzionato la scena post-bop, ma vale la pena conoscerlo e magari averlo nella propria collezione.