// di Guido MIchelone //
Oggi nessuno o quasi li ricorda più, ma all’inizio dei Seventies i Nucleus risultano tanto i campioni del jazzrock inglese quanto gli esponenti di una musica nuova, che fa breccia fra i giovani hippy: assieme ai Soft Machine rappresentano, per due-tre anni,l’avanguardia britannica che unisce la musica afroamericana con il sound preferito dalle nuove generazioni della Swinging London.
E attorno a Nucleus e Soft Machine, alimentata dal gossip, all’epoca si crea la stessa diatriba che circa un decennio prima vige tra Beatles e Rolling Stones o vent’anni più tardi tra Oasis e Blur. Chi è meglio? Si chiedono tutti! Oppure chi è più rock tra le due band? O chi suona meglio il jazz? Sonodnque da preferire i Soft Machine, anarchici visionari di scuola canterburiana o i più compassati Nucleus di algida tradizione londinese? Difficile, ieri come oggi, un giudizio finale, anche perché, musicalmente parlando, si tratta di due fenomeni diversi: i Soft Machine, come si sa, in principio sono artisti rock via vai avvicinatisi al jazz (anche con l’innesto di nuovi solisti), mentre i Nucleus restano appunto un ‘nucleo’ jazz, attorno alla figura carismatica del trombettista e musicologo Ian Carr, nato a Dumfries il 21 aprile 1933 e deceduto a Londra il 25 febbraio 2009.
Carr che è la mente di un gruppo aperto, solidale, efficiente sia dal vivo sia negli studio, pur nella breve parabola, dove il gioco di squadra è fondamentale, grazie innanzitutto ai membri fondatori, oltre il leader, Karl Jenkins (tastiere e oboe), Brian Smith (sassofoni e flauto), Chris Spedding (chitarre), Jeff Clyne (basso elettrico), John Marshall (batteria e percussioni) progetta i due splendidi album iniziali, Elastic Rock e We’ll Talk About It Later, ma subito dopo decide di anteporre il proprio nome accanto a quello del gruppo. Escono così durante l’intero decennio ben 12 studio album (a cui s’aggiungono due negli Eighties) più cinque live e una raccolta. Sono 20 album tutti da ascoltare, ma per focalizzare l’attenzione su alcuni momenti-chiave forse è meglio ora privilegiarne solo due, da un lato Labyrinth (marzo 1973) inciso come Ian Carr with Nucleus e dall’altro Roots (agosto 1973) intitolato invece a Ian Carr’s Nucleus. Per la cronaca l’etichetta di Bury St. Edmunds ristampa negli anni Dieci in sei doppi CD tutto il materiale relativo a questa formazione, in un’opera filologica meritoria che tra l’altro coinvolge anche musicisti dell’epoca oggi un po’ dimenticati come i Solid Gold Cadillac, Bobby Goldsboro, Alla Rakha.
Passando invece a Labyrint e Roots, quando escono, vengono indicati dai puristi – ai quali forse non interessa nulla di musica nuova, pur ‘impegnati’ ad ascoltare Charlie Parker e John Coltrane che, storicamente, fanno grandissima musica nuova che dovrebbe rimanere tale con ascolti opportuni – come allarmanti esempi di contaminazione fracassona, ma sentiti oggi, non solo Labyrint e Roots (come l’opera omnia di Ian Carr & Nucleus) non perdono nulla della loro sorprendente attualità, ma si rivalutano soprattutto quali ottimi dischi di jazz moderno, dove l’inserimento rock si limita a qualche linea di basso elettrico. Per il resto ci si trova di fronte a un grande artista, quale Carr, capace di dirigere grosse formazioni (il sound infatti ricorda un po’ quello di Gil Evans o dei Blood, Sweat & Tears), di impiegare valorosi solisti (in particolare nel primo album) e di lasciare ampi spazi improvvisativi (dal free al mainstream). Tra i due dischi è forse meglio Labyrinth, più che altro per la presenza di dieci ospiti, metà dei quali rappresentano da allora a oggi il gotha dell’english jazz: Kenny Wheeler, Norma Winstone, Tony Coe, Gordon Beck, Tony Levin. Dalla big band all’ottetto in Roots, con una formazione stabile (Brian Smith, Dave Mcrae, Jocelyn Pitchen, Roger Sutton, Cliebv Thacker, Aureo de Souza, Joy Yates, oltre Carr) in una direzione più sperimentale.
