Ramon Morris – «Sweet Sister Funk», 1974
«Sweet Sister Funk» è un disco raro e ricercato, ma anche di rara bellezza ed efficacia, posizionato all’incrocio dei pali, tra jazz vero e jazz-funk, come fu in uso in quel decennio, sulla scorta delle nuove istanze degli anni ’70, dove il jazz incorporava altri elementi sonori provenienti dalla cultura afro-americana. Ciò fornì a tanti musicisti un salvacondotto, almeno in quel periodo di forti contaminazioni, per oltrepassare il guado e la linea di confine e raggiungere persone che normalmente non erano avvezze all’ascolto del jazz in purezza. Non appena la puntina comincia a penetrare con avidità i microsolchi, avanti agli occhi affiorano immagini metropolitane scandite da suoni che portano alla mente scene da film anni ’70, quelle con i poliziotti neri o con i teppistelli neri inseguiti da grassocci piedipiatti bianchi, angiporti ombreggiati, vicoli polverosi, strade con cataste di rifiuti e cassonetti che fanno da arredo urbano ad ogni angolo.
Siamo in piena «blaxploitation», ma il funk serve la causa del jazz e Ramon Morris, un disinvolto tenorsassofonista dal tocco soul e dal movimento agile, si sposa idealmente tra vicoli e palazzi, parlando l’idioma jazz-funk. «Sweet Sister Funk» raggiunge un equilibrio quasi perfetto tra gli echi della tradizione e le tendenze sperimentali, forgiando una serie di groove aggressivi e taglienti, ma al contempo suggestivi ed accessibili. Registrato con il supporto di Albert Bailey al piano elettrico, Mickey Bass al basso, Mickey Roker alla batteria, Cecil Bridgewater alla tromba, Lloyd Davis alla chitarra, Tony Waters alle percussioni, l’album irradia folate di energia positiva. Peccato che questo disco sia un unicum e che Morris non abbia mai più registrato altro in veste band-leader. La domanda sorge spontanea: tradito dalla casa discografica o dalla sua musa ispiratrice? Ancora oggi, non è dato di sapere.
Eppure questa singolare registrazione di Ramon Morris rimane uno dei dischi più riusciti e potenti nell’ambito del jazz-funk di quel periodo e per l’etichetta Groove Merchant sicuramente il migliore. Morris sfodera un tono deciso sul tenore con uno stile che mescola note luminose, ritmi funky e cangianti raffiche di accordi. Cecil Bridgewater alla tromba gli regge il gioco, così come tutta la band da la sensazione di seguire con scrupolo la rotta indicata dal capitano. «Sweat», «Lord Sideways», la title-track «Sweet Sister Funk» e un’insolita versione di «People Make The World Go Round» di The Stylistics, gruppo soul-disco, molto in voga in quel periodo, danno struttura, anima e corpo al disco; mentre la fusione a caldo di stili e moduli «negroidi» produce un perfetto amalgama.
Le prime due tracce sono spettacolari, il brano d’apertura, «First Come, First Serve» è un groove facile ed immediato, spinto sui medi da vampate di riffs, dal vibrante fraseggio di Morris e da un pedissequo Bridgewater quasi in fotocopia. «Wijinia», al contrario, gioca l’arma della seduzione attraverso intriganti assoli di tromba e sax. «Sweet Sister Funk», disegna alla perfezione quel clima poliziesco e metropolitano in voga in quegli anni, con un assolo di Ramon Morris da manuale. «Do not Ask Me» è un hard-bop convenzionale con il basso che spazia a tutto campo, Morris procede in maniera spedita e lineare suggerendo il tema, mentre la tromba di Bridgewater lo rifinisce e lo esalta. Niente paura nel complesso è una disco di sana e robusta costituzione jazz, dove il funk, nelle vesti di un «black warrior», ne sostiene la causa ed offre nuovi spunti narrativi.