// di Irma Sanders //

L’euforia e l’eufonia spesso portano ad utilizzare l’aggettivo “grande” jazzista per delle figure minori e marginali. In Verità le divinità nel mondo del jazz di tutte le epoche sono 10/15 al massimo. Molti spesso si sfogano con delle elencazioni che rasentano il ridicolo. Essere importanti nel jazz significa aver rappresentato qualcosa a livello di innovazione, di cambiamento, ma non fini a sé stessi ed al proprio modo di suonare, che magari affascina i critici e gli esperti, ma che lascia (o ha lasciato) del tutto indifferenti il pubblico e gli acquirenti di dischi.

Tale innovazione deve aver prodotto un movimento universalmente riconosciuto e non di nicchia, aver messo in moto numeri anche dal punto di vista commerciale, aver creato un indotto sia per l’industria che per altri musicisti. L’arte come espressione nel mondo della musica di consumo e della discografia ha un valore puramente simbolico che affascina gli idealisti. Ciò che rende “grande” un artista è saper trasformare la propria espressione in produzione seriale, ossia qualcosa di vendibile: vendere significa anche divulgare, diffondere idee ed arrivare ovunque. E’ pur vero che la fortuna e gli eventi, oltre al talento, devono giocare a favore di chicchessia, altrimenti si rimane fra color che son sospesi.

Molti bravi jazzisti, tanti tra quelli che piacciono a noi, spesso sono stati degli ottimi comprimari, delle geniali figure di contorno, delle meteore inespresse, dei fenomeni osannati dalla critica, ma a cui il pubblico non ha mai prestato interesse. Non vorrei ridurre l’assioma anche nel jazz che vox populi sia anche vox dei, ma in parte è così. Le figure predominanti nel jazz, quelle 10 o 15 divinità olimpiche di cui sopra, oltre ad essere geniali, innovative, fortunate, sono state anche delle persone intelligenti in grado di gestire meglio di altre il loro personaggio, anche quanti hanno bruciato anzitempo la propria vita ed il proprio talento.

Duke Ellington, oltre ad essere stato un sopraffino direttore e compositore, seppe gestire molto bene quella che era diventata una specie di Ellington’s Enterprice. Lo si capisce da un disco del genere, nulla di rivoluzionario, ma che pubblicato nel 1958 per la Columbia, riusciva a prendere al lazo tutti i cultori del jazz, quelli di “prima” e quelli di “dopo”. Già il titolo è qualcosa di grandioso, ispirato ai primi satelliti orbitali, “The Cosmic Scenes” e lui, il Duca, che diventa Duke Ellington’s Spaceman. Tutto ciò è la dimostrazione che i grandi, lo sono stati, perché comunque sapevano pensare in grande. Il jazz è pensare in grande, tutto il resto è per i comuni mortali.