// di Francesco Cataldo Verrina //
Il 10 luglio 1966 alla convention della National Association of Music Merchants di Chicago, la Selmer Company famosa per i suoi sassofoni presentò quello che, secondo i dirigenti dell’industria di Elkhart nell’Indiana, avrebbe potuto rappresentare una vera rivoluzione nell’ambito del jazz e della musica in generale: il Selmer Varitone. L’apparecchio era, fondamentalmente, un sistema di amplificazione studiato per i sassofoni contralto e tenore, in seguito sviluppato anche per altri strumenti a fiato. La Selmer lo pubblicizzò, più o meno con questa filosofia aziendale: «Ti permette di tagliare fuori un organo elettronico e un’intera bolgia di chitarre amplificate. Più sonorità nuove, più colori, più opzioni e più volume. Mette il tuo caratteristico sassofono Selmer a capo di qualsiasi combo». All’epoca molti musicisti ne rimasero affascinati, tra cui Sonny Stitt ed in particolare Eddie Harris, che per un certo periodo ne divenne il sostenitore più convinto e con ottimi risultati tecnici.
Pubblico, stampa , critici e musicisti non furono, però, tutti dello stesso avviso, tanto che la popolarità del Varitone si consumò nel breve volgere di qualche anno, tra il 1966 ed il 1970. Mentre tra il ʻ67 ed ʼ68 ci fu una crescita esponenziale nell’uso e nella divulgazione del cosiddetto electric saxophone, già a partire dal 1969/70, con gli strumenti elettronici diventati uno standard in tantissimi dischi, il Varitone iniziò a precipitare progressivamente nel dimenticatoio. Ciò non significa che non siano stati prodotti degli ottimi dischi con ausilio di questa che potremmo considerare una sorta di «protesi amplificativa». Eddie Harris, sassofonista elettrico degno di nota, riusci a trovare una discreta risposta sul mercato attraverso un suono modificato, ovviamente senza mai bissare i fasti del 1962, anno in cui con la sua versione di «Exodus», ripresa da un tema cinematografico, divenne il primo disco jazz a sfondare il tetto del milione di copie vendute. Avendo conosciuto il successo commerciale su larga scale, a partire dal 1966 Harris si era sentito più libero di sperimentare.

Down Beat scrisse di lui: «È capace di alcuni effetti sorprendenti, in particolare un’ottava-unisono che dà l’impressione che il suonatore stia eseguendo un vero duetto nota per nota con sé stesso. Piuttosto inquietante, per essere sicuri, e forse anche un espediente, ma Harris impiega il dispositivo per ottenere un effetto eccellente e totalmente musicale (…) non lascia che il supporto lo domini o oscuri la sua personalità (…) non sembra un artefatto fra le sue mani, ma piuttosto un utile strumento che permette al sassofonista di arricchire e approfondire la sua arte». Senza dubbio, Eddie Harris è stato il più pervicace degli aderenti al verbo del sax elettrificato. Le sue composizioni, mentre esplorano ed elevano strutture ritmiche innovative, posseggono ancora ganci orecchiabili ed il modo di suonare del sassofonista mantiene una logica sempre lineare, simile ad una storia, sia che si dipani attraverso un plot romantico sia precipiti sull’onda di brusche impennate soul-funk.
Nel 1969 Miles Davis con «Bitches Brew» sdoganò definitivamente la produzione di dischi jazz con apparecchiature elettrificate, che iniziarono a vendere più di quelli realizzati con strumenti acustici. «Plug Me In» di Eddie Harris, uscito per l’Atlantic nel 1968, per quanto sottovalutato o sfuggito a l controllo dei radar, è un disco appena visionario, un chicca di jazz-rock-funk imperniato su ottimi groove e soprattutto in linea con la tendenza del periodo. Il titolo dell’album significa «collegami» e la copertina mostra Harris con il sassofono collegato via cavo ad un amplificatore elettrico. Questa era l’epoca in cui tutti sembravano collegarsi a «qualcosa» che potesse amplificare il suono del proprio strumento: Sly Stone che distorceva il suo elaborato funk-rock, Jimi Hendrix che suonava linee di chitarra elettrica influenzate da Coltrane ad un volume indiavolato, Joe Zawinul che si era convertito alla religione pagana del piano elettrico. Presto anche Miles Davis avrebbe iniziato ad usare un pedale wah-wah. Il microsolco di Harris, con o senza elettricità, è soprattutto un piacevole disco di jazz-funk.
Difficile, nonché improbabile, sbilanciarsi ed usare il termine fusion, ma come già detto, l’album è appena visionario, ben suonato e beneficia del supporto di validissimi sidemen come il baritonista Haywood Henry, il trombettista Jimmy Owens e la pianista Jodie Christian ed altri che si alternano nelle singole tracce. «Plug Me In» è un costrutto concepito con le regole d’ingaggio tipiche degli ambienti R&B, più che del jazz e riflette il seducente mix di stili musicali che il sassofonista praticava accompagnando Aretha Franklin, tanto da voler riprodurre quella stessa atmosfera nel proprio lavoro: il pianista esegue accordi a tempo; Il bassista suona come se avesse ascoltato gli album della Motown con James Jamerson, mentre la sezione fiati costruisce un valido sostegno su cui Harris si esprime proprio come farebbe un cantante o, nello specifico, come faceva Aretha. Tra le tracce più convincenti si segnalano: «Lovely Is Today», «It’s Crazy», «Theme In Search Of A T.V. Commercial» e «Live Right Now».
Non lasciatevi spaventare dalla parola «elettrico», siamo di fronte ad uno standard soul-jazz, eccetto per l’uso da parte di Harris del Varitone. In realtà, tutto il marchingegno era solo un pickup montato su un normale sassofono che alimentava un’unità di effetti e, nonostante la possibilità di manipolare e stratificare i suoni con questa tecnologia, in «Plug Me In» è tutto armonicamente equilibrato ed il Varitone a malapena udibile. Io non me lo lascerei scappare.