“La selezione del brani dimostra come Evans sia stato in grado di prendere anche brani popolari e trasformarli in opere di jazz moderno senza fronzoli.”
// di Francesco Cataldo Verrina //
Insieme Miles Davis, Trane e pochi altri, Bill Evans è una delle figure del jazz moderno universalmente riconosciute ed apprezzate. Il suo stile rilassato ed emotivo al pianoforte ebbe un’influenza dominante non solo su molti colleghi, ma anche su varie generazioni di pianisti venuti dopo. I precedenti lavori in Trio: “Waltz For Debby” e “Sunday At The Village Vanguard” costituiscono due classici ad imperitura memoria. “Trio 64” è il primo album Bill Evans dopo il passaggio dalla Riverside Records alla Verve. Il lavoro di Evans con il suo primo trio, insieme al geniale Scott LaFaro e Paul Motian, rimane comunque il climax della sua carriera, il più lodato dai critici e popolare per diffusione.
La tragica morte di LaFaro nel 1961, aveva lasciato il pianista nel più totale sconforto, tenendolo per lungo tempo lontano dalle scene. “Trio 64” segnò una riunione tra Motian ed Evans con l’aggiunta del bassista Gary Peacock, il quale pur non avendo il talento di LaFaro, si integrò nel processo iniziato dalle precedenti sessioni in trio di Evans, dove scintillanti progressioni pianistiche affioravano tra affilate linee di basso con il solito impeccabile lavoro di Motian alla batteria. Peacock era perfetto per Evans, forse il naturale sostituto di Lafaro, essendo uno spirito affine, soprattutto quando si trattava di non seguire semplicemente le tendenze musicali del momento, come dimostrerà la sua futura collaborazione con artisti lungimiranti e visionari del calibro di Albert Ayler e Paul Bley.
Bill Evans per molti fu un caso di “adattamento” alla scena jazz della fine degli anni ’50 e ’60; era un personaggio tranquillo e introverso (almeno in pubblico) e per quanto fosse difficile da immaginare ora, in quegli anni venne spesso attaccato da alcuni integralisti per il suo modo di suonare, forse troppo classicheggiante ed accusato di non essere abbastanza “jazz”. E’ inutile dire che, all’unanimità, si è propensi a sostenete, che il meglio Bill Evans l’avesse già fatto prima di “Trio 64”, anche se parliamo di un album di alto livello stilistico. Non si discute la qualità della performance, che è linea con l’estetica sonora del band-leader, mentre manca la stretta telepatia che nel precedente trio si stabiliva con LaFaro.

L’album risulta assai interessante sotto un profilo storiografico, poiché nonostante questa fosse la prima volta (sarà anche l’unica) che Evans suonava con Peacock, non c’è alcun senso di esitazione, smarrimento o titubanza nell’interazione tra i due musicisti; anzi sembrerebbe che i due avessero fatto coppia fissa da sempre. Ne è la dimostrazione il fatto che il pianista non aveva raggiunto tale livello nella recente collaborazione con Chuck Israels (basso) e Larry Bunker (batteria). “Trio 64” mette sviluppa un concept sonoro comune e intuitivo, con un interplay da manuale incentrato sulla straordinaria capacità dei tre sodali di sapersi ascoltare a vicenda e rispondere simultaneamente. La selezioni del brani dimostra come Evans sia stato in grado di prendere anche brani popolari e trasformarli in opere di jazz moderno senza fronzoli.
Nessun altro pianista dell’epoca avrebbe osato interpretare “Santa Claus Is Coming To Town”., creando un piccolo capolavoro post-bop da quello che avrebbe potuto essere soltanto un suggerimento stagionale spontaneo. L’album fu registrato il 18 dicembre del 1963, quindi perché non lanciare una melodia natalizia o “Little Lulu”, tema dell’omonimo fumetto degli anni ’40, così come se fossero stati degli standard jazz. Proprio “Little Lulu” presenta il trio che modella le caratteristiche sonore individuali di ciascuno dei musicisti. Il sincopato agile ed enfatico di Evans non è solo abilmente supportato, ma è incorniciato e magnificato dalle esecuzioni espressive di Peacock e dall’acuto senso del tempo di Motian.
“A Sleeping Bee” è una delle tracce più accattivanti dell’album, con uno scintillante groove che gioca intorno ad alcuni reciproci e puntuali cambi di accordi, mentre il trio va avanti e indietro con Peacock, ed è proprio quest’ultimo che distilla un assolo da manuale. “Always” sviluppa un mood e duna dimensioni molto simili, soprattutto quando gli strumentisti riflettono e fluiscono in sincrono. “I’ll See You Again” di Noël Coward si cala in una vivace atmosfera di valzer, che consente al line-up di intrecciare armonicamente le singole progressioni senza ostacolare il costrutto melodico. L’album si chiude con lo standard di Rodgers & Hart “Everything Happens to Me” dall’andamento lungo e durevole, tanto da consentire a chiunque di familiarizzare con il ritornello. Per tutto il tragitto Evans appare più brillante e perscussivo del solito, scivolando intorno al corposo bassline di Peacock ed al ritmo solido e deciso di Motian.