// di Francesco Cataldo Verrina //

Che il lavoro di un artista acquisti valore dopo la morte è inevitabile, l’industria discografica ha una predisposizione innata allo sfruttamento della necrofilia, come testimoniano i casi di Janis Joplin, John Lennon, Elvis Presley, Michael Jackson, Prince ed altri. Nemmeno il mondo del jazz è stato immune da questo tipo di parassitismo post-mortem. Se è vero che un artista abbia il diritto di essere rappresentato e giudicato da quelli che egli stesso ritiene i suoi lavori migliori e più riusciti, è anche vero che nella maggior parte dei casi, le registrazioni che certi jazzisti avevano accantonato, non sono mai state pubblicate.

Questa produzione di Helen Keane, ricavata da alcuni nastri del Bill Evans Trio, non solo non è inferiore allo standard di Evans, ma risulta di elevato livello qualitativo. «Re: Person I Knew» è un live in cui Bill Evans è accompagnato da Eddie Gómez al basso e Marty Morell alla batteria. I pezzi registrati al Village Vanguard di New York nel 1974, diedero vita ad un disco postumo uscito su etichetta Fantasy nel 1981, dopo la morte del musicista avvenuta nel settembre del 1980. Orrin Keepnews, allora produttore discografico della Fantasy, racconta: «La frase che da il titolo all’album è un anagramma creato riorganizzando tutte le lettere nel mio nome». «Re: Person I Knew», potrebbe risultare come un album di Bill Evans, realizzato con materiale di seconda scelta, con degli avanzi o degli scarti di registrazioni occasionali e non previste: in molti ebbero questo sospetto all’inizio, in realtà è un disco ben assemblato e di grande respiro. Nelle sessioni scelte, nulla era stato affidato al caso.

In genere, le registrazioni effettuate in un club o in una sala da concerto miravano a catturare l’esecutore nell’atto di esibirsi, al fine di preservare il calore e la spontaneità di un musicista al lavoro nel suo ambiente naturale e grezzo, a contatto con il pubblico, piuttosto che nella perfezione asettica di uno studio. Ma ascoltando questo album, risulta difficile tenere a bada un persistente sospetto, ossia che i musicisti non sapessero che i registratori fossero attivi e che non vi fosse alcuna seduta prevista per un disco ufficiale. Questo, tuttavia, deve essere considerato come uno degli album più naturali e spontanei mai realizzati.

Bill Evans

Nonostante i nastri del registratore continuassero a girare in quelle sere di gennaio del 1974, non erano previste registrazioni ufficiali, tanto da condizionare l’operato dei musicisti e limitarne la creatività. Mentre lavorava per realizzare gli album ufficiali con la Fantasy, Bill Evans metteva in conto di non doversi limitare strettamente al materiale pre-programmato. In parte per rispetto verso il pubblico pagante e in parte per rilassarsi dalle tensioni della registrazione, i suoi set includevano alcuni brani inammissibili negli album di quel periodo e nel suo repertorio standard. Da queste selezioni, Helen Keane (la produttrice e manager di Evans di lunga data, con cui il pianista aveva collaborato quasi sin dall’inizio) portò alla luce questo intrigante album, come un reperto o un repertorio dimenticato e solo momentaneamente accantonato.

«Re: Person I Knew» andrebbe considerato come un secondo album di prim’ordine frutto delle performances al Village Vanguard e non come una collezione di scarti o out-take. È pur vero che ci sono alcuni tra i brani meno prevedibili, almeno in tale veste esecutiva. Il trio saldamente coeso, esplora, come era abitudine, ulteriori sfumature di questo materiale che conosceva nei minimi dettagli e su cui si era già misurato in passato ripetutamente. Particolarmente toccante l’apertura della B-side con un caratteristico intreccio di riflessioni musicali introspettive e piuttosto private per pianoforte che Bill effettuava sempre prima dell’inizio di un set. Il gioco pianistico si basa su «Dolphin Dance» di Herbie Hancock da Maiden Voyage del 1965, in seguito sviluppato in una versione definitiva all’interno di un album registrato nel 1977, «I Will Say Goodbye». Il risultato finale è piuttosto soddisfacente e conoscere la genesi del disco non deve condizionare l’ascoltatore.