// di Francesco Cataldo Verrina //
Questo è un album che spiazza i tradizionali seguaci del Bill Evans intimista, ripiegato su se stesso e pronto a conversare con la propria immagine sonora riflessa in uno specchio, attraverso un interscambio quasi immaginario tra sé e sé; per contro esalta quanti lo avrebbero voluto sempre più collaborativo, meno languido e soprattutto pronto a condividere la prima fila con musicisti di pari grado. Qui lo scambio peer-to-peer non è virtuale ed il titolo “Interplay” diventa emblematico, poiché i sodali hanno buona stoffa e sono di alto rango: un giovanissimo Freddie Hubbard fresco di Jazz Messengers, un dinamico ed ispirato Jim Hall alla chitarra e due bollenti spiriti nella retroguardia ritmica, ossia Percy Heath al basso e il Philly Joe Jones alla batteria.
Registrato il 16 e 17 luglio del 1962 a New York per la Riverside, l’album è di una bellezza adamantina ed alimentato in ogni suo tratto dal fuoco della creatività esecutiva. Il gruppo, perfettamente coeso e connesso, espande la percezione del fruitore al di là del normale flusso sonoro di un piccolo ensemble, attraverso una ricchezza propositiva e propulsiva: i cinque suonano l’uno contro l’altro, l’uno con l’altro e l’uno di fianco all’altro, a volte come se fossero un tutt’uno in uno magico “Interplay”. Thom Jurek sulle note di copertina, scrive così: “Interplay, registrato da un quintetto guidato da Bill Evans (…) contiene alcune delle musiche di Bill Evans più enigmatiche e inusuali tanto nella forma estetica, quanto nell’esecuzione (…) un’aggiunta gradita alla libreria musicale di ogni fan di Evans”.

Chi è abituato alla formula del piano trio, scoprirà un Bill Evans più aperto e condivisivo, meno protagonista assoluto, a volte in grado di fare un passo indietro, il quale mostra un approccio più blues, più duro, più tagliente, sostenuto da un Jim Hall molto a tiro ed in uno stato di forma splendida, costantemente swingante, sia sulle ballate che sugli up-tempo. Il più contenuto appare proprio il giovane Freddie Hubbard, che in alcuni momenti usa la sordina, cercando la via maestra del lirismo, a discapito dell’esuberanza che lo contraddistingueva nel covo di Art Blakey.
Perfettamente calata nello stato d’animo del gruppo la sua lettura di “When You Wish Upon a Star”, uno dei momenti più riusciti insieme all’iniziale “You And The night And The Music” e “I’ll Never Smile Again”, di cui è presente anche una take alternativa. Il quintetto raggiunge, però, il climax nell’unico componimento originale dell’album, ossia la title-track, “Interplay”. Nel complesso parliamo di un disco che fa schioccare le dite e battere il piede in ogni momento, suonato con estrema destrezza e naturalezza e srotolato sul terreno di un facile ed immediato hard-bop dalle linee contenute e mai eccessive. Questa è “haute couture” del jazz moderno, di un’eleganza stellare e sopraffina. Eccellente, per qualità sonora, la nuova edizione in vinile 180 della MatchBall.
