“Le variabili sembravano molte, dal parkerismo viscerale al coltreismo cosmico, ma a dominare era sempre il suo tratto unico e distintivo”.
// di Francesco Cataldo Verrina //
C’è una dichiarazione del contraltista romano che sintetizza in maniera esaustiva la sua visione dle jazz: «Secondo me, è stato fatto di tutto, dopo il silenzio di Cage a livello puramente estetico, non è che ci siano tante cose da fare. Tutto sta nel fare non solo della buona musica, ma nel fatto che l’avanguardia, secondo me, sta nei sentimenti e non nelle forme». Registrato nel gennaio del 1987 presso gli studi AT Sonic di Roma e pubblicato dalla Red Records, «Easy To Love», dal titolo mutuato dall’omonima composizione di Cole Porter presente nel disco, è un album che trova la quadratura del cerchio, pur sciorinando una manciata di standard ed alcuni originali; un lavoro esteticamente bello, anche se l’aggettivo bello potrebbe essere quanto di più fatuo da attribuire alla musica, poiché arte invisibile come suggeriva Duke Ellington.
Ciononostante la capacità interpretativa di Massimo Urbani risulta tale e così sorprendente da rendere i connotati di un prodotto mainstream simile a tipici portatori dell’estetica d’avanguardia. Il modulo espositivo del sassofonista è cosi intenso, capace di attraversare i tempi veloci con disinvoltura e di strappare emozioni sulle ballate, tanto da emanare un’aura di fluida unicità e di complessità evocativa al contempo che non trova altri esempi nella storia del jazz moderno, almeno sul suolo italico. L’apporto strumentale dei sodali non è da meno: Luca Flores al piano, Furio Di Castri al basso e Roberto Gatto alla batteria, capaci di agire come una coriacea monade e di ampliare lo spettro percettivo del tipico modulo espressivo urbaniano. Siamo di fronte ad un compatto hard-post-bop declinato con estro, dinamismo e furore, soprattutto attraverso una dinamica esecutiva che faceva di Urbani un cantore unico di un jazz trasversale ed innovativo nel metodo di consegna, ma capace di unire vecchi e nuovi lemmi del bop. L’album si apre con «A Trane from the East», a firma Urbani, in cui il sassofonista dimostra di essre alquanto creativo evitando di cadere nel tranello di in una riscrittura pedissequa del modulo coltraniano; per contro cerca di rubare l’anima a Trane, piuttosto che la tecnica; tenta un contatto con la sua spiritualità suprema, elaborando un costrutto sonoro giocato sull’alchimia di gruppo, uno stile espositivo originale e tutt’altro che calligrafo.
Ciò che i quattro musicisti riescono a concretizzare sarebbe difficilmente riproducile in altri contesti; perfino nel reinventare un classico come «Easy To Love», Urbani dimostra di essere il solito incontenibile estroverso ed insofferente alle regole, pur rispettando tempi e misure. In «Night Walk», scritta la Luca Flores, il pianista trova la sua vetrina espositiva guidando un’intensa ballata in cui le sue progressioni armoniche la fanno da padrone. Con «I Got Rock», una composizione sul crinale della fusion, il sassofonista si riprende la scena, attraverso un impianto funkified esaltato dai colpi di basso di Furio Di Castri, mentre la batteria di Roberto Gatto frusta l’aria con veemenza. Il mood ad alta tensione della retroguardia si acquieta con «Star Eyes» una delle ballate in cui Massimo riusciva a dare del suo meglio per liricità e poetica, ma in questo set trova la piena complicità di Luca Flores che gli stende sottotraccia un piacevole manto di note. L’atmosfera è già satura di vibrazioni e calore quando arrivano «Good Morning Heartache» e «Three Little Woords», altri due standard che chiudono l’album in uno stato di grazia collettiva.
Massimo Urbani è sempre stato sulla linea di confluenza di vari stilemi bop, le variabili sembravano molte, dal parkerismo viscerale al coltreismo cosmico, ma a dominare era sempre il suo tratto unico e distintivo. Perfino un album circolare e ben incanalato nei canoni più ortodossi del jazz straight-ahead, come «Easy To Love», ne è una lampante dimostrazione.
