// Francesco Cataldo Verrina //

Quando si pensa a Massimo Urbani si tende sempre a cadere nell’idea dello stereotipo dell’artista scapigliato e maudit, genio e sregolatezza. Pertanto, si dimentica troppo spesso che, al netto di ogni valutazione sulla sua breve vita, vissuta senza regole e ad alta velocità, il sassofonista romano è stato un musicista archetipale, unico nel panorama italiano, europeo e mondiale. Massimo Urbani avrebbe potuto essere un modello, avendo un tratto unico ed inconfondibile nel modo di suonare e di inglobare nel suo modus operandi il percorso tracciato da una lunga linea evolutiva del jazz moderno che da Charlie Parker giungeva sino a John Coltrane.

A volte si insiste sul legame viscerale con il parkerismo, di cui Urbani è stato (anche se non riconosciuto) uno più convinti e dotati perpetuatori della specie Bird-Sapiens, ma la sua costruzione sonora univa i tanti punti di una più complessa tavolozza espressiva e creativa. L’approccio al jazz dell’altoista romano fu precoce e naturale, quasi istintivo. Si pensi che aveva 17 anni quando diede alle stampe «Jazz a Confronto». Il dato anagrafico contrastava con la tecnica e la padronanza che egli aveva dello strumento, essendo quelle di un musicista maturo e consapevole dei propri mezzi. Urbani ha sempre fatto ricorso ad un linguaggio libero, versatile, immaginifico rielaborando tutto ciò che aveva assimilato in maniera non convenzionale e tutt’altro che calligrafica o manieristica, ma soprattutto maneggiando lo strumento come pochi altri nella storia mondiale del sax contralto, quasi fosse un’estensione della sua personalità.

Massimo appariva come trascinato da una forza mistica e sovrannaturale, sviluppando durante le sue performance una sorta di aura trascendentale non dissimile da quella che scaturiva dalle esibizioni di Trane, altro punto di riferimento del sassofonista romano. Emblematico e profetico il titolo dell’album «Dedications To Albert Ayler & John Coltrane / Max’s Mood», realizzato nel 1980 per la Red Records. Urbani aveva solo ventitré anni, ma siglò uno dei capolavori del jazz europeo e, certamente, uno degli album più riusciti della sua breve carriera, accompagnato al sax alto da un validissimo line-up: Luigi Bonafede al piano, Furio Di Castri al basso e Paolo Pellegatti alla batteria. I quattro sodali si muovono in maniera agile e sinergica tra le pieghe di un repertorio alquanto variegato.

Non è un disco free-form, Urbani non perde mai il centro tonale, non usa un fraseggio eterodosso e non insegue la dissonanza a tutti costi, ma il mood è dinamico e passionale come quello di un disco a metà strada tra il bebop integralista di Parker ed il Coltrane modale di «Giant Steps», mentre di Albert Ayler c’è solo l’uso funambolico e spettacolare che questi faceva del sassofono, ma più in senso fisico che sonoro. Di certo, tutti i dischi di Massimo Urbani sono alimentati da un anelito di libertà espressiva, incontenibile ed insofferente alle regole, ma egli dimostra la capacità di restituire al mondo un classico come «Soul Eyes» di Mal Waldron in maniera poetica e con la struggente grazia di un crooner; per contro modifica la durata delle note del chorus di base con quella naturale attitudine a reinventarne il vissuto precedente ed aggiungere fermenti vivi a tutto ciò che reinterpretava. «Naima» di Coltrane è rinforzata sull’ossatura di base e vagamente parkerezzata in velocità, mentre «Scrapple form the Apple» di Bird, il pezzo più fedele allo stile parkeriano, diventa quasi un falso d’autore più bello dell’originale. L’inusuale versione di «Speak Low», composta da Kurt Weill, certifica ulteriormente il dinamismo creativo del sassofonista.

Nei tre inediti forse è reperibile qualche traccia di Ayler, specie in alcune strutture volutamente scarne ed infantili. Nell’opener, «Dedications», da lui firmata, il sassofonista diventa perforante e corrosivo come un Phil Woods che ha divorato la kryptonite, distillando complesse trame di note e di accordi sotto libertà vigilata e senza mai imboccare il vicolo cieco dell’incongruenza tonale. Anche «Max’s Mood», composta da Urbani, è impostata su un costrutto ritmico-armonico capace di lasciare molto spazio all’improvvisazione, dove i temi melodici diventano un pretesto per liberare i freni inibitori della creatività del contraltista, mentre l’assolo di batteria si trasforma in un piccolo capolavoro di arte percussiva. «L’Amore» di Luigi Bonafede si basa su una cifra compositiva più articolata, ariosa e dinamica, più vicina al post-bop coltraniano, dove il pianista autore, imbracciate le armi di un novello McCoy Tyner, con la correità di Furio Di Castri armato di basso ad arco, prepara la pista di atterraggio per un dirompente Massimo Urbani dotato di un potente reattore, che modula e s’inerpica in verticale legando ed intrecciando le note come Trane, ma urlando più di Pharoah Sanders.

Eccellente il lavoro del batterista, Paolo Pellegatti, che non bada a spese, aggredendo costantemente piatti e tamburi, ma soprattutto appagando e compensando la vulcanicità del sassofonista leader. «Dedications to Albert Ayler e John Coltrane – Max’s Mood» evidenzia esattamente quanto lo spirito di Charlie Parker si fosse impossessato di Massimo Urbani, che mostra, altresì, di possedere la foga di John Coltrane, la corrosiva ironia di Albert Ayler, la rabbia di Pharoah Sanders, l’asprezza di Jackie McLean, la potenza di Phil Woods, l’irregolarità di Ornette Coleman, la poetica di Eric Dolphy, ma in fondo questo disco testimonia la genialità dell’unico italiano ammesso per meriti sul campo al Pantheon delle divinità del jazz mondiale. Forse, chi ha scritto la storia avrebbe dovuto scriverla diversamente, ma noi siamo qui apposta, hic et nunc.