“Non solo eccellente quale solista, ma vale tanto anche come leader, nel senso che benissimo sa scegliersi gli accompagnatori ideali per seguirlo in queste lunghe jam session che eccitano il pubblico”.
// di GUIDO MICHELONE //
Ogni tanto, in Italia, torna a parlare di Massimo Urbani il jazzman romano morto a soli trentasei anni per collasso cardiocircolatorio dopo un’esistenza trascorsa a drogarsi pesantemente: nasce a Roma nel quartiere di Monte Mario l’8 maggio 1957 e sempre nella Capitale scompare il 23 giugno 1993. Sassofonista(al contralto e talvolta al tenore), bandleader (con predilezione per combo ristretti), compositore (più occasionale che logico), resta una figura tragica, insomma, che ricorda le vite grame di tanti suoi colleghi americani di molto tempo prima, a cominciare da Charlie Parker, a cui viene giustamente accostato non tanto per il valore storico – i piani sono obiettivamente diversi – quanto per l’intensità del suono e la generosità delle interpretazioni quando entrambi ovviamente hanno la forma fisica e la concentrazione mentale necessaria a suonare, improvvisare, swingare, elaborare un tema con varianti fino ad assolo strepitosi.
In tal senso per apprezzare e condividere l’indiscussa bravura di Massimo basterebbe ascoltare il postumo Live In Chieti giacché si tratta di registrazioni sono esemplari: provenienti da un concerto tenuto la sera del 9 giugno 1979 presso la Villa Comunale della cittadina abruzzese, Urbani sfodera il proprio talento che, stilisticamente parlando, non è in fondo altro che quello di un harbopper aggiornatissimo: ci sono ‘soltanto’ cinque brani (eccezionalmente al tenore, anche perché Urbano porta spesso il proprio sax alto al banco dei pegni per avere i soldi per gli stupefacenti) che però durano dagli undici ai venti minuti, dimostrando appunto cosa si possa fare con un’ancia anche riutilizzando standard consumatissimi e proseguendo la lezione dei vari Sonny Rollins, John Coltrane, Dexter Gordon, Jackie McLean.
Naturalmente Massimo non è solo eccellente quale solista, ma vale tanto anche come leader, nel senso che benissimo sa scegliersi gli accompagnatori ideali per seguirlo in queste lunghe jam session che eccitano il pubblico, ma prima ancora gli stessi jazzmen: ecco dunque interagire con Urbani soprattutto uno strepitoso Franco D’Andrea al pianoforte, da poco reduce dall’esperienza fusion del Perigeo alla ricerca di una nuova verginità; oltre qualche assolo notevolissimo è lui a tessere le fila tra il sax tenore grintoso e la sezione ritmica che deve sostenere ritmi incomparabili (come pure languide ballad), grazie al timing e al drumming rispettivamente di Attilio Zanchi al contrabbasso e Giampiero Prina alla batteria. A sentire dunque Invitation (Kaper), You Don’t Know What Love Is (Raye/DePaul), Milestones (Davis), No Idea Of Time (D’Andrea) e Cherokee (Noble) e vero quanto afferma Enrico Rava nel booklet: “Aveva solo ventidue anni ed era irresistibile”.

Urbani nel 1979 pubblica il terzo disco ufficiale a proprio nome 360° Aeutopia, dopo Invitation e Jazz a confronto 13 rispettivamente di due e quattro anni prima; ma durante i Seventies sono ben nove gli album a cui partecipa, lavorando con maestri del calibro di Giorgio Gaslini, Mario Schiano, Enrico Rava, Giancarlo Schiaffini, Gaetano Liguori, oltre il duo folk-rock Loy & Altomare. Durante gli anni ’80 e ’90 al contrario sono 9 gli album suoi, contro i 4 altrui, ma con nomi di assoluto prestigio come Luigi Bonafede, Giovanni Tommaso, Luca Flores e addirittura Chet Baker. Non è tanto il jazz di Massimo a essere vera musica, quanto un’esistenza che purtroppo lo accumuna alla piaga dell’eroina che funesta molti giovani negli anni ’70, portandolo da indiscusso talento del jazz italiano e internazionale a un’esistenza segnata da difficoltà e contraddizioni, quasi in sintonia, nel tragico destino, del jazz menzionato Charlie Parker (1920-1955).
Entrambi al sax contralto, sia pur in epoche e contesti assai differenti, vivono sino in fondo il ruolo dell’artista maledetto, genio e sregolatezza, di fronte a una società che non ne sa apprezzare completamente i valori umani e creativi. Per Parker e Urbani, vittime precoci e anime sofferte della tossicodipendenza, la musica resta l’unica forma spirituale in cui convogliare le energie positive nei momenti di inventiva e di passione: non è un caso infatti che proprio Urbani, partito stilisticamente dall’avanguardia radicale, si avvicini, alla fine dei Sevenetis, ben presto a rileggere la poetica parkeriana bebop, ossia gli inizi del jazz moderno, una sonorità sconvolgente, ma che non rinuncia a un lirismo struggente ed esasperato, quasi a esternare catarticamente le angosce e le frustrazioni del ‘negro’, e più in generale, della civiltà contemporanea.
Il potenziale espressivo rimane in Massimo sempre a livelli elevatissimi: eccelle soprattutto nell’improvvisazione su temi arcinoti, rinunciando a scrivere brani originari, per poter perfezionare ogni volta, in concerto o su disco, i motivi del recente passato afroamericano, alla ricerca di un’ideale eredità del modello parkeriano e di musica veritiera: non a caso l’unica composizione nota di Urbani è Blues for Bird, che già nel titolo è una esplicita dichiarazione d’affetto e d’amore: Bird è appunto il nomignolo di Parker.