// di Francesco Cataldo Verrina //

Oggi una persona a casa mia , mi ha chiesto: ma che cos’è il jazz?

Gli ho detto: prendi quattro dischi a caso…

..quattro dischi che non hanno alcuna relazione spazio-temporale, se non il jazz come comune denominatore.

Per iniziare una performance senza tempo, ossia “Cosmopolite” di Benny Carter accompagnato dal pianista Oscar Peterson, dal bassista Ray Brown, Barney Kessel o Herb Ellis alla chitarra, Buddy Rich, J.C. Heard o Bobby White alla batteria. Su quattro tracce, è presente anche il trombonista Bill Harris. Il set completo, disponibile in CD, comprende 17 standard, di cui quattro versioni alternative). Un concentrato di swing ad altra gradazione e struggenti ballate, dove un Benny Carter in forma smagliante si conferma come uno dei grandi contraltisti della tradizione. Registrato in tre sessioni, tra il 1952 e il 1954, l’album fu dato alle stampe per la prima volta nel 1956 su 10 pollici.

Per gli amanti della chitarra jazz, “7th Ave. Stroll” di Mark Whitfield, il quale nel 1995, all’epoca di questo set, aveva solo 28 anni. Nonostante l’età, il chitarrista dimostra ottime capacità direttive ed improvviative, soprattutto una spiccata e naturale abilità di interazione con sidemen più esperti e maturi, quali Tommy Flanagan, Dave Holland, Al Foster, Stephen Scott, Christian McBride, Gregory Hutchinson, che si alternano nelle varie tracce dell’album. Il gioco di Whitfield risulta costantemente armonioso, la voglia di mettersi in mostra non lo porta, però, fuori dal binario dell’eleganza e del buon gusto. La tecnica è impeccabile, il suo tono morbido e chiaro con la tendenza far roteare delle seducenti linee bluesy, ricche di liricità, facili da canticchiare dopo qualche ascolto. La chitarra di Mark Whitfield emana un suono vibrante, morbido e pieno, che ricorda il primo George Benson. Oltre ad essere un ottimo interprete di standard, il chitarrista dimostra di essere un prolifico compositore, contribuendo con sette memorabili melodie: “Washington Square Thoroughfare”, “7th Ave. Stroll”, “A Brooklyn Love”, “Businessman’s Bounce”, “The Bowery Blues”, “Sunset at Waterside”, “Headin to the Wes’ Side”, tutti brani che avrebbero potuto trovare posto in uno degli storici album di Wes Montgomery per la Riverside. Altamente raccomandato.

In “Round Trip” del 1969 Phil Woods è accompagnato da un big band con la quale riesce a creare una piacevolissima atmosfera retrò, adatta alla colonna sonora di un film in bianco e nero. Il modo di suonare del sassofonista risulta molto ispirato, in particolare in alcuni brani come la title-track, Round Trip, “Love Song for a Dead Che” e “I’m All Smiles”; senza contare il forte pathos di “Solitudine”, una delle sue più note composizioni, insieme ad altre ballate come “This Is All I Ask” e “Here’s That Rainy Day”, che fanno di questo, un album dal suono incantevole e maliardo.

“Steve Turre”, il disco che porta il nome dell’omonimo trombonista è tour de force musicale, un progetto estremamente ambizioso che esplora un’infinità di territori sonori fra Nord e Sud del mondo. L’uomo delle conchiglie allarga il suo raggio d’azione fino ad abbracciare musicalmente l’emisfero occidentale, in particolare Cuba e Brasile. L’album, grazie alla partecipazione di ospiti stellari e provenienti da ogni dove, si sostanzia in un’opera ricca di tematiche sonore, di ritmi e melodie, dove l’originalità diventa la carta vincente. Ne scaturisce una potente pozione musicale inebriante e coinvolgente sin dal brano d’apertura, “In a Sentimental Mood”, in stile bossa nova, arricchito da un assolo di conchiglia che ricorda Dizzy Gillespie e dalla calda e fumosa voce di Cassandra Wilson. Turre gioca con le conchiglie, il cui suono viene usato come ingrediente genuinamente musicale, non come espediente sperimentale. Non manca il tributo al maestoso suono di J.J. Johnson, che affiora in una sorta di lungo poema sonoro, “The Emperor”, il cui titolo si riferisce proprio al gigante del trombone; il tibuto si allarga anche a “Steve’s Blues”. La musica afro-cubana ha un ruolo preminente, quale substrato sonoro dell’album. “Ayer Lo Vi Llorar” è un gioiello per la voce dell’allora ottantunenne regina del Bolero, Graciela Perez. Da manuale il duetto di Mongo Santamaria con un compiacente McCoy Tyner in “Mongo ‘n’ McCoy”. “Steve Turre” di Steve Turre” è un album avvincente, che emana tutto il sapore di un’esuberante e spontanea jam session.