// di Ghigno Di Bacco //

Storiella semiseria: siamo nel 1981, Keith Jarrett non ha più la sua folta chioma zazzeruta, il Sansone del pianoforte ha perso parte della sua forza, quindi intraprende un viaggio curativo e rigenerativo, attraverso una sorta di bilocazione sonora ed un forte sdoppiamento della personalità al limite della schizofrenia patologica. Non che l’approssimarsi di una qualche forma di follia per un artista sia un male, ne amplifica lo spettro creativo e ne espande la percezione sonora. Keith Jarrett s’inerpica per gli scoscesi e verdi pendii delle terre del Nord alla ricerca dell’avvenente pastorella, che si nasconde tra le foreste di conifere e licheni per sfuggire al suo destino.

Il pianista ha con sé qualche provvista, un sassofono che usa come bastone, un rilevatore Geiger ed un telefonino Brondi; soprattutto è intenzionato a conquistare la fanciulla dalla superbe fattezze, coperta solo da un lembo di vello d’oro nella zona pentatonica all’altezza della fascia pelvica. Giunto in Germania, ad Ottobeuren, ordina una birra cruda e si avvicina al portale di una chiesa, dopo aver scrutato bene l’ambiente, s’incammina all’interno, seguito da uno stuolo di monaci Telefunken, giungendo nei pressi di un massiccio organo a canne e qui si abbandona al delirio sonoro, iniziando le sue “Invocations” attraverso sette movimenti, perché sette sono i nani, sette le meraviglie dell’universo, il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico, sette le terre, sette i mari, sette gli abissi dell’inferno, e sette le sue porte, sette sono i versetti della prima Sûra del Corano, sette gli Dei della felicità del buddhismo e dello shintoismo, sette sono i doni dello Spirito Santo, a cui si aggiungono sette scatole di cioccolatini sette sere Perugina, il settebello a scopa il sette meno tre che fa quattro, ossia Livorno andata e ritorno.

Jarrett s’invola attraverso una serie di episodi sonori che somigliano più alla guerra dei sette anni che ad una suite musicale, mentre la pastorella compare in lontananza ed approfittando di un vecchio palo del telegrafo inizia una sorta di selvaggia lap-dance, Jarrett, la invoca, la supplica, cerca i contrasti, tenta i contanti e perfino i cantanti. Il fascino del luogo ed il decadimento dell’abbazia rendono la scena suggestiva ed incantevole, un set per una recita a soggetto, tanto che la casa cinematografica tedesca MCE, sotto cui si celano gli emissari dell’ECM ne acquistano subito i diritti. La pastorella ha gettato via il vello d’oro ed ha scoperto la sua pentatonica, i due si muovono all’unisono come guidati da una forza sovrannaturale, mentre Jarrett accompagna il movimento del suo organo con alcune meditazioni solistiche sul sax soprano.

L’eccitazione raggiunge il climax e anche la vicina Magonza, terra della patonza, mentre un forte rumore di claxon fa sobbalzare Jarrett che si ritrova improvvisamente in uno studio, solo e davanti ad un pianoforte Stainway nei pressi di Ludiwigsburg, improvvisando nature morte musicali, quadretti impressionisti ed ostinati da operetta, senza trovare mai l’impulso jazz, che gli avrebbe consentito di ritrovare la pastorella con la pentatonica sotto il vello doro, invece dovrà accontentarsi di un boccale di birra, due wurstel, una falena ed una fiamma presso la nota gasthaus, o locanda, “The Moth and the Flame”. Stretta la foglia e larga la via, dite la vostra che ho detto la mia…

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